di Anna Meli – Rapporto “Illuminare le periferie”
Il Regno dello Swaziland, recentemente rinominato Regno di eSwatini, è un piccolo paese stretto tra la Repubblica del Sudafrica e il Mozambico.
Ha una popolazione di 1,2 milioni di persone, due terzi dei quali vivono sotto la soglia di povertà.
Dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna, nel 1968 il re Sobhuza II abrogò la Costituzione e fino al 2005 la nazione Swazi non ne ha più avuta una. Nonostante l’entrata in vigore della carta costituzionale che contiene norme fondamentali relative ai diritti umani e alle libertà fondamentali, nel paese vigono ancora norme consuetudinarie legate a tradizioni e costumi sociali che spesso prevalgono anche sulle norme di diritto. Lo Swaziland è l’ultima monarchia assoluta del continente africano, governata attualmente da Re Mswati III.
Il panorama mediatico del paese è quasi monopolitiscamente nelle mani del re. Ci sono due quotidiani nazionali, uno di proprietà monarchica, l’altro collegata agli interessi del re, una tv e una radio pubblica di proprietà statale e nonostante le tante richieste non c’è ancora una legge che permetta anche alle radio comunitarie – fondamentali in tutta l’Africa per arrivare nelle comunità rurali – di avere delle frequenze.
Le uniche due testate private sono due periodici, Agribusiness e The Nation. Il primo specializzato in agricoltura e notizie economiche legato alla potente compagnia di trasformazione della canna da zucchero, la monocoltura prevalente con un impatto ambientale ed umano devastante per il paese. The Nation invece è una pubblicazione mensile socio economica e politica che proprio per i suoi contenuti è costretta a stampare in Zambia le 5000 copie attualmente distribuite.
L’attuale direttore di The Nation è Bheki Makhubu, che il 17 aprile del 2014 fu condannato a due anni di reclusione o una multa di 20.000 dollari per i commenti pubblicati su The Nation sul capo della corte suprema del paese.
Lo incontro a Johannesburg il 17 agosto scorso per un incontro organizzato da COSPE onlus, che opera in Swaziland dal 1999 a fianco della società civile per l’accesso alla terra e per il rispetto dei diritti fondamentali.
Il forum dei direttori (Swaziland Editor’s Forum), di cui Bheki fa parte, ha chiesto a COSPE onlus e a SALC – Southern Africa Litigation Centre – un incontro fuori dai confini del paese per parlare liberamente della situazione della libertà di espressione nel paese e concordare possibili strategie di difesa dei giornalisti e promozione della libertà di stampa.
Quando e come hai iniziato la tua carriera da giornalista?
Ho iniziato a fare il giornalista nel 1988 a soli 18 anni. Mio padre era il direttore generale di un giornale in Swaziland e così ogni volta che andavo a trovarlo a lavoro cercavo di capire come funzionasse la redazione di un giornale, e mi piaceva anche se mio padre si è sempre rifiutato di assumermi per ovvie ragioni. Poi sono andato al Times of Swaziland. Avevano bisogno di un responsabile per lo sport e così ho iniziato a occuparmi come giornalista di sport dal 1988 al 1991. All’epoca si usava ancora la macchina da scrivere ma proprio in quegli anni ci si iniziava a muovere verso la computerizzazione. Feci un corso di formazione per desktop publishing e così quando il Times inizio il processo di computerizzazione fui individuato come quello che sapeva come i computer funzionassero e mi proposero di diventare vice caporedattore centrale. Avevo 24 anni e poi nell’arco di due anni sono diventato caporedattore del supplemento settimanale della domenica. Era un anno che veniva pubblicato ma si erano avvicendati già due caporedattori e i risultati erano scarsi. Il Times mi disse che era l’ultima chance e che se anche con la mia direzione il supplemento domenicale non funzionava avrebbero chiuso l’esperienza.
Rimasi alla direzione del supplemento dal 1993 al 1999 con successo. Poi nel 1999 fui licenziato dal Times.
Quando e perché sei stato incarcerato?
Venni licenziato dal Times perché avevo pubblicato un articolo critico sulla moglie del Re. Per questo fui anche arrestato con l’accusa di diffamazione (criminal defamation). Era la prima volta che accadeva ed avevo 29 anni. Passai una notte in prigione e fui rilasciato su cauzione. La storia venne volutamente tenuta nascosta perché la corona non ha bisogno di questo tipo di pubblicità.
C’era un collega che aveva iniziato un’esperienza indipendente con molte difficoltà perché era costretto a stampare fuori dal paese e decisi di dargli una mano. Non avevo più un lavoro e così iniziò l’avventura di The Nation così come la conoscete oggi.
Poi a marzo 2014 ho scritto un articolo che criticava il Presidente della Corte Suprema di allora. Lo criticai per una decisione che aveva preso e così lui decise di arrestarmi per oltraggio alla Corte. Da allora inizio un processo molto pubblicizzato nel paese. Mi portavano alle udienze con le catene ai piedi e le ho tenute tutti i giorni per 3 mesi. Alla fine sono stato 15 mesi in prigione, 447 giorni in tutto. Il messaggio era chiaro: i giornalisti in questo paese non possono scrivere ciò che vogliono.
Ma per fortuna ci fu una mobilitazione internazionale e dopo 15 mesi era chiaro che il caso stava creando imbarazzo al governo e al re. Ti racconto cosa successe all’appello: Amnesty International mi aveva procurato un’avvocata a rappresentarmi in appello e in teoria era lei che doveva iniziare la requisitoria. Ma quando si alzò il pubblico ministero chiese di fare una dichiarazione prima di iniziare e dichiarò che il mio caso era stato tutto un grosso equivoco e un’incomprensione e finalmente uscì di prigione.
Quanto è stato difficile ripartire? Ci sono state conseguenze per la testata per cui lavoravi?
Ovviamente ci sono state conseguenze economiche pesanti per The Nation. Personalmente ero disorientato e questa esperienza ha avuto degli effetti mentali su di me. Ma dal punto di vista lavorativo ho molta più libertà ora di prima. Nessuno cerca di bloccarmi perché ritengono che questo possa causare problemi. E quindi quello che apprezzo è che questa nuova condizione mi mette pressione perchè controlli ancora più accuratamente il lavoro che faccio. So anche di non dover abusare di questa mia “cosiddetta” libertà. Una volta ad una conferenza stampa un collega mi ha detto: “Sai che sei l’unico oggi a poter avere la libertà di esprimerti in questo paese. Noi non l’abbiamo.” E’ probabilmente vero ma è altrettanto vero che la libertà di espressione deve caricarti di responsabilità. Perché l’unico modo di lavorare di un media deve essere nel rispetto e nell’interesse del pubblico. Quindi non devi pubblicare fake news, non devi mancare di rispetto a nessuno, perché il pubblico non è stupido. Quindi questo mi ha spinto a lavorare in un modo ancora più responsabile anche nelle cose che pubblico sui social media perché so che adesso le persone mi prendono sul serio e quindi non posso solo essere quello che diffonde rumors. Ma quando qualcosa è vero e giusto non ho nessuna inibizione a raccontarlo o a chiedere ad un ministro conto del suo operato.