di Paolo Maggioni
Peter Eisenmann è uno degli architetti più importanti del mondo ed un grande amante del calcio. Sostiene che guardarsi indietro ha poco senso, in architettura e nel pallone, perché tutte le generazioni hanno diritto a costruirsi una propria nostalgia. Concetto inappuntabile che sfugge però ad alcune eccezioni. È il caso dei pionieri. Degli innovatori. Dei rivoluzionari che possono essere rimpianti anche da chi ne ha sentito solo parlare, o ne ha letto le pagine migliori.
Venticinque anni dopo la morte, di Gianni Brera resta la differenza. Linguistica, di sguardo sul pallone, lessicale: battezzò abatini e rombi di tuono, incastonando concetti tipici della sua battaglia per il gioco all’italiana, come melina e contropiede.
L’elenco sarebbe ancora molto lungo. Il racconto sportivo, dunque, anche come missione sociale, pedagogica. Divenne presto un “maestro”.
Brera: la stoffa da vendere e il carisma nel sostenere le proprie idee (leggendarie le scazzottate in sala stampa tra critici difensivisti e amanti del gioco offensivo) avevano forgiato una figura unica e inimitabile.
Soffriva, Brera, l’essere considerato un guru della scrittura sportiva ma non un vero romanziere, nonostante alcuni libri ben riusciti come “Il corpo della ragassa”. Una parte della critica scrisse che era “una specie di Gadda spiegato ai poveri”.
Gianni Mura, che ne fu discepolo e amico, risolse la questione con una battuta fulminante: “sfornava piatti da ristorante stellato con una velocità da pizzeria. Difficile immaginare Gadda fare la stessa cosa”.
Gianni Brera fu anche uomo di televisione. E lo fu a modo suo, a cominciare dalla pipa eternamente accesa. In Rai raccontò di sport e di cucina e tenne anche una rubrica di caccia e pesca -che fa quasi impressione rivedere oggi- ma che negli anni Sessanta fu un successo.
Condusse una memorabile intervista all’amico Nereo Rocco nella sua casa di Trieste, un piccolo documentario col ritmo di un romanzo di formazione, in cui era impossibile non notare le decine di bottiglie vuote appoggiate sul tavolo, tra un ricordo e l’altro.
Trovò poi in Beppe Viola la spalla ideale per i suoi commenti alla Domenica Sportiva. Un cortocircuito di intelligenze a smitizzare la liturgia del pallone ma anche a ribadire che non bisogna mai sottovalutare il peso sociale, e culturale, del fenomeno calcistico.
Difficile individuare eredi, nonostante svariati tentativi di imitazione. Forse aiutano i luoghi. Esattamente sotto la casa di Gianni Brera, oggi, in quella porzione vivacissima di Milano tra Chinatown e il Parco Sempione, resiste una piccola frequentatissima enoteca. Passandoci nelle ore lontane da colazioni, aperitivi e pause pranzo, scorgerete un ragazzo intento a studiare un grosso libro, dietro il bancone. Si chiama Hu, ha gli occhi a mandorla e una parlata milanese stretta. Guardatelo, concentrato su una specie di Bibbia del vino europeo, ripassare caratteristiche e provenienze delle uve, tempi di invecchiamento e tecniche di imbottigliamento. Forse Hu non conosce Gianni Brera, ma sa distinguere un buon Barbacarlo da una patacca qualsiasi e sa farlo meglio di chiunque altro nel quartiere. Ecco perché lui, Hu, a quell’illustre vicino – Gioann Brera fu di Carlo – sarebbe sicuramente piaciuto. Il calcio moderno, probabilmente molto meno.