di Riccardo Cristiano
Il giorno in cui l’hanno sequestrato, a Raqqa, ero a casa mia, a Roma. Mi stavo andando a coricare, ero uscito da una seduta di tre ore dal dentista, dolorosissima, ma senza alternative: avevo un ascesso enorme, ma siccome di lì a due giorni dovevo partire non si poteva che procedere: estrarre due denti, nonostante l’infiammazione. Così quando verso le undici di sera squillò il telefono ci misi un bel po’ a capire, pieno di anestetico com’ero. Sequestrato? A Raqqa? Ma chi? Paolo? Lì per lì mi è venuto un terribile senso di colpa. Perché chi lo conosceva, in quei mesi probabilmente aveva sottovalutato quanto poteva accadere dentro di lui davanti alla sistematica brutalizzazione dell’uomo in Siria.
Paolo, oltre che una persona sensibile, è anche un appassionato amico dell’uomo… Sovente, parlando con lui o parlando di lui, ho detto che frequentandolo, ascoltandolo, ho finalmente capito cosa voglia dire «radicalità evangelica».
Il suo sequestro per me è stato un trauma. Ma non ho potuto non pormi la domanda: come avrebbe reagito un uomo sensibile come lui ai gas della Ghouta, allo sterminio per fame di Yarmouk, alla carneficina di Qusayr, ai cadaveri bruciati nelle strade della sua Nebek, e a tanto altro… Certo, il sequestro con gli aguzzini di al-Qaida non sarà stato da meno, mi sono detto più volte. E leggendo il romanzo di Mustafa Khalifa su certi metodi di detenzione i brividi sono stati lunghi, tremendi. Dunque, perché è rientrato? Molti hanno sussurrato che fosse rientrato su «incarico» della stazione televisiva con la quale collaborava, dato che alcuni suoi dipendenti sono stati sequestrati: Paolo sarebbe stato «incaricato» di andare a chiederne il rilascio.
E invece non è così. Lo dice lui stesso a quella televisione, che lo ha intervistato poche ore prima del sequestro. In quella registrazione, disponibile su YouTube, dice: «Sono venuto a Raqqa spinto dalla mia tristezza, dal mio dispiacere per il sequestro del mio amico Ahmad al-Hajj Saleh, il quale mi ha riservato un’accoglienza abramitica a Tall Abiad, quando sono passato di lì a febbraio di quest’anno, 2013. Adesso siamo nel mese di Ramadan e, grazie a Dio, stiamo digiunando. Ho annunciato su Internet, appena è cominciato il ramadan, che ho intenzione di fare il digiuno quest’anno. Chiediamo a Dio la grazia: l’unione e la solidarietà con i musulmani. Noi siamo in una condizione di sforzo democratico per la caduta del regime e allo stesso tempo ci sono problemi molto dolorosi nell’opposizione siriana. Io sono venuto a chiedere ai siriani, a ricordare ai siriani, a chiedere a me stesso: insomma ragazzi, facciamo qualcosa per rappacificarci e porre davanti a noi l’obiettivo giusto, quello di ottenere la libertà per tutti i siriani. E conservarla».
Bastava chiamare Orient Tv per non cadere in inesattezze, a fronte di un chiarimento così forte, esplicito. Dunque dietro la sua decisione c’erano le querce di Mamre185, quelle dove, non attendendoli dentro casa, Abramo si recò a ricevere gli ospiti annunciatigli dal suo Dio, c’era l’ospitalità abrami- tica dell’amico, ricevuta mentre si recava a pregare sulle fosse comuni in riva all’Oronte. Nella certezza, mi sono detto leggendo di quest’intervista, che il «cristianesimo è una religione in movimento».
Questa idea, oggi così popolare grazie alle allegorie sul passeggiare di Papa Francesco, padre Paolo l’ha esposta molti anni fa, in un libro in cui racconta la storia del suo ordine monastico e del monastero di Mar Musa. Lì dice che quando Gesù affermò che «il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» il cristianesimo divenne una religione che o è in movimento o non è cristianesimo. In un certo senso è quel che stanno dicendo il Papa e il cardinale Walter Kasper al riguardo della famiglia, quando sostengono che il problema non è cambiare la dottrina, ma renderla applicabile all’uomo moderno, per aiutarlo ad essere felice, cioè pienamente realizzato.
È in quel libro che padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita espulso da Assad e sequestrato dall’Isis, quasi prevedendo quel che stava per accadere nella sua Siria, ha osato scrivere: «In un articolo che ho polemicamente intitolato Elogio del sincretismo, ho cercato di trattare questo tema sotto una diversa angolazione, quella del processo di meticciato culturale anche a livello religioso. In effetti la fede, sia essa cristiana o musulmana, non esiste separata da un contesto culturale e anche la distinzione tra fede e cultura, sebbene si tratti di un concetto teologico, rimane nell’ambito culturale. Così un cristiano non potrà programmare in anticipo l’estrazione della sua fede dal contesto della sua educazione per reincarnarla culturalmente in un contesto diverso, per esempio quello musulmano. Si tratterà sempre di un processo in cui, nell’evoluzione della propria cultura, si compie lo sforzo di fare propria una cultura altra. […] Sappiamo che non esiste questa cultura originale, pura, che nessun elemento esterno ha fertilizzato o inquinato. Astraendo da alcune rare popolazioni rimaste a lungo isolate, si può sostenere che la cultura umana è sincretica per natura. La religiosità, una dimensione essenziale della vita culturale, è radicalmente, chiaramente sincretica, come dimostra lo studio comparato delle religioni. […] Il sincretismo, d’altronde, non è estraneo al mondo biblico. Per quanto riguarda il cristianesimo, è stato necessario tutto il lavoro della critica biblica moderna per rinunciare all’idea di una Bibbia pura, salvaguardata da ogni influenza o contaminazione esterna. […] Il fatto è che oggi la storiografia critica del racconto biblico dimostra che si tratta di una rilettura tardiva e idealizzata di quel racconto. Questo dimostra che la separazione fra i testi sacri e le culture circostanti è sempre stata impossibile e che vi è sempre stata interazione culturale. Il desiderio biblico di separarsi dagli altri si dipana, dunque in un contesto sincretico di contiguità culturale […] che non impedisce però alla comunità ebraica di elaborare i propri riferimenti identitari. […] Esiste infine […] un sincretismo negativo: è sinonimo di fragilità […] di cattivo gusto estetico: personalmente non mi trovo a mio agio quando vedo delle vergini marie mescolate ai simboli vudu, alle iconografie vagamente induiste […]. È un sincretismo onnivoro, kitsch, privo di radici e di prospettive feconde. […] Noi non abbiamo un’idea conservatrice della storia. Non facciamo archeologia monastica. Siamo appassionati della ininterrotta capacità di novità della storia, che è il modo più fecondo di essere conservatori. […] In questi ultimi venticinque anni, negli incontri con l’islam, al monastero abbiamo sperimentato una certa resistenza della Chiesa locale di fronte alla legittimità di una inculturazione delle fede cristiana in contesto arabo-musulmano: come se questa prassi mettesse in pericolo il cristianesimo locale, sia esso copto, siriaco, bizantino o armeno. Vi sono evidentemente delle difficoltà metodologiche, dogmatiche, sociali a una radicale inculturazione della fede cristiana.
La nostra inculturazione vorrebbe superare il folclore degli indumenti, dei tappeti a terra, dei piedi scalzi in chiesa e dell’uso corrente dell’arabo […]. Per noi si tratta di essere un seme gettato e un lievito che consenta a tutta la pasta di crescere per essere nutrimento per tante persone. Si tratta di dare testimonianza del mistero di Gesù di Nazaret a favore dei musulmani nell’oggi drammatico, doloroso e contraddittorio del mondo dell’islam. Escatologicamente, vale a dire ai fini del compimento finale del senso della storia umana, il mistero della Chiesa non può che fondersi in uno con quello del- l’islam: tutta l’armonia dell’opera di Dio, in ogni tradizione, verrà alla luce del sole dell’ultimo giorno».
Dopo tante parole, alcune stupende, sulla Chiesa degli Arabi, forse padre Paolo ne ha cominciata l’edificazione, anche a Raqqa.
Non a caso proprio lì, a Raqqa, Suad Nufal, una musulmana amica di padre Paolo, ha manifestato tantissime sere, indossando un paio di pantaloni, davanti al quartier generale dell’odierno Is, rivendicando i suoi diritti di essere umano.
E’ proprio a Suad Nufal che voglio dedicare queste riflessioni. Padre Paolo, invece, spero solo che, quando lo rivedrò, non mi critichi troppo per quel che ho scritto. Nel loro impegno contro i terroristi e per il vivere insieme ho trovato eco della sofferente consapevolezza con cui Paolo VI seppe scrivere nella lettera «agli uomini delle Brigate Rosse»: «Tutti dobbiamo avere timore dell’odio che degenera in vendetta, o si piega a sentimenti di avvilita disperazione. E tutti dobbiamo temere Iddio vindice dei morti senza causa e senza colpa».