di Paolo Borrometi
Beppe Alfano aveva il fiuto del cronista di razza, ma non era neanche giornalista pubblicista (lo fu solo dopo la sua morte, come Giovanni Spampinato, Peppino Impastato e Mauro Rostagno) quando, l’otto gennaio di 24 anni fa, cadde sotto i colpi di pistola di un killer di cosa nostra.
A 42 anni lavorava ed investigava, cercando la verità, in maniera solitaria su mafia, politica, intrecci fra comitati d’affari e massoneria che speculava su diversi traffici illegali avvalendosi, già all’epoca, di sovvenzioni Europee.
Alfano aveva da poco iniziato un’inchiesta giornalistica che riguardava un traffico internazionale di armi, passando dalla “sua” Messina. Un’altra sua “colpa”, forse la maggiore, fu quella di aver contribuito alla cattura del boss catanese Nitto Santapaola.
“Non è più tollerabile che Barcellona debba sottostare alla legge del terrore imposta da esseri socialmente pericolosi. Il tutto mentre le istituzioni politiche di peso stanno a guardare; alcuni partiti sono più latitanti che mai”.
Scriveva così Beppe Alfano che si domandava: “Quali iniziative “forti” i due politici di razza barcellonese hanno intrapreso negli ultimi anni presso il ministro degli Interni affinchè, una volta per tutte, anche i barcellonesi possano finalmente iniziare a vivere tranquilli?”.
Domande rimaste senza risposta, come quelle relative ai veri responsabili della sua morte.
Dopo l’omicidio di Beppe Alfano seguì, infatti, un lungo processo, ancora oggi non concluso, che condannò un boss locale, Giuseppe Gullotti, all’ergastolo per aver organizzato l’omicidio, lasciando ancora ignoti i veri mandanti e le circostanze che scaturirono l’ordine di morte nei suoi confronti.
24 anni senza verità e senza Giustizia, appunto. Il tutto nel silenzio tombale di chi vorrebbe la storia di Beppe Alfano come una “parentesi da dimenticare”.