di Riccardo Cristiano
“Questi anni di guerra hanno indicato il fallimento dell’utopia di Paolo Dall’Oglio?” Quando è stata posta questa cruciale domanda nel corso di uno degli speciali voluti dalla Rai in occasione del quarto anniversario del sequestro del gesuita romano, il rettore del Massimo, padre Giovanni La Manna, ha risposto così: “la nostra fede si fonda su un fallimento, la morte di Cristo sulla croce.”
Uno speciale su padre Paolo e il suo rapimento, sul suo impegno di religioso, di uomo, di comunicatore, di intellettuale, di amico appassionato della Siria e dei siriani doveva essere così, dove cioè accavallare l’ordine mondano e l’ordine ultramondano, l’ordine politico e quello religioso, l’ordine geostrategico e quello civile.
Doveva evidenziare la stasi extratemporale di imperi che non esistono più da secoli e che intanto però sembrano volersi prendere la rivincita su Alessandro Magno, il ritorno forse imminente di paci dimenticate come la loro formula magica “cuius regio, eius religio”, e che questo però in Medio Oriente sta passando attraverso pulizie etniche e genocidi.
C’è davvero un “realismo cinico ma sostenibile” in questo o non sono progetti folli? Non potevano essere programmi semplici, trattando temi feroci e intrecciati come i capelli di Medusa, ma sono stati anche programmi commoventi, di una commozione profonda, come quando è stato mostrato padre Paolo spiegare, dicendolo anche in arabo, che il nome di Dio, Allah, è pace, e poi lo ha cantato, chiamando i presenti a cantarlo con lui, con la sua capacità di scaldare, di affascinare, di coinvolgere, di “aprire”.
Sono stati programmi pensati sull’attualità, che attraverso il dramma sin qui rimosso di un grande “un instancabile costruttore di ponti sequestrato proprio per questo” hanno parlato del dramma di milioni di uomini, di milioni di donne, di milioni di vecchi, di milioni bambini, una generazione cancellata, distrutta, mandata in esilio, il dramma cioè di un popolo perseguitato e scacciato senza avere alcuna terra promessa.
Tutto questo ha restituito la patente di grande intellettuale prima che di rapito a un grande italiano, per il quale in quattro anni non si è saputo neanche chiederne la liberazione, anche perché i suoi presunti sequestratori non si sa neanche chi siano. Sono sequestratori rimasti orrendamente nell’ombra più tetra, come rimangono, troppo spesso ingiustamente, nelle tenebre i responsabili di bombardamenti di centri abitati, di ospedali, di scuole, come rimangono nelle tenebre i torturatori, i seviziatori, i carnefici, i responsabili di massacri chimici, tutti coloro che si accaniscono da sei anni contro gli abitanti di Raqqa, di Homs, della Ghouta, di Idlib, di Aleppo, di Qusayr, di Hama, di Daraa, di Deir ez Zoor, di Yarmouk e di tantissimi altri quartieri e città siriani.
E così in tanti programmi di Rai Uno, Rai Due, Rai Tre, di Rainews 24, del Giornale Radio, di Tv 2000, di Sky, di Radio Popolare, in tantissime pagine di Repubblica, della Stampa, del Corriere della Sera, di Avvenire, del Sir, dell’Huffington Post, di Globalist, di Aleteia e di tantissimi altri la giornata di e per Paolo è diventata la giornata di tutte le vittime di questo osceno conflitto. E di tutti i costruttori di ponti.
Ovviamente ci sono state anche voci “perplesse”,come è stato giusto che fosse. Ma il dato impressionante e sul quale merita riflettere è che una proposta, partita dal segretario dell’Usigrai a fine maggio e subito raccolta dalla Federazione della Stampa e da Articolo 21, ha coinciso con molti sentimenti, li ha alimentati, quindi è stata raccolta dal servizio pubblico e si è incontrata con altre attenzioni, riflessioni, disponibilità a guardare oltre i confini delle verità prefabbricate, cercando di aiutarci a vedere oltre dense cortine fumogene fatte di deformazioni, demagogie e ideologie, attraverso il racconto di un uomo che ci aveva avvertito per tempo.
Aiutarci a vedere non in bianco e nero, ma faticando a riconoscere le sfumature tra torti storici e depravazioni, ondeggiando tra collera e luce, la collera per ciò che non è giusto e… la luce, che viene solo da chi può superare la divisione, o la vivisezione della realtà, costruendo ponti.
Mi piace ricordare che padre Fortunato, portavoce del Sacro Convento di Assisi, ha ricordato che Paolo aveva sentito l’ondata di profughi che stava per investire l’Europa. E quale curatore del libro che l’associazione dei giornalisti amici di padre Dall’Oglio ha pubblicato mi permetto di citare le sue parole, contenute nel libro su questo gesuita, su questo italiano, su questo instancabile amico del futuro, che o sarà comune o non sarà: “Ma non li senti i rumori di questi milioni di profughi che si preparano ad arrivare in Europa? Non senti i colpi dei remi, il respiro ansimante dei fuggiaschi, i motori lenti dei barconi? Sono milioni, capisci? È il nuovo esodo dalle terre del Faraone, ma non ha Terre Promesse. Credi che l’Europa sia pronta ad accoglierli? Credi che l’idea stessa di Europa possa sopravvivere accanto al più grande terreno di pulizia etnico- confessionale della storia recente? È evidente che questo riporterà la xenofobia, l’isteria. Il negazionismo di ieri, mai morto, si unirà al negazionismo di oggi, per impedirci di vedere. Ma in questo mondo globale c’è un vecchio proverbio arabo che è divenuto un proverbio universale, e ci dice che una mano da sola non applaude. È proprio così. Se lasceremo senza solidarietà cittadina i nostri vicini, finiremo inghiottiti dal loro destino. E sarà, quello sì, un applauso terrificante”.
C’è una lezione, a mio avviso, che tutto il mondo dell’informazione e il servizio pubblico in particolare possono trarre da questa vicenda e che va al di là della grande soddisfazione per un’iniziativa lodevole, che in certo senso guarda al domani e sana errori o distrazioni di ieri: gli indici di ascolto contano, altrettanto vale per le copie vendute, l’impegno civile conta altrettanto.
Non come moda, ma come scelta per l’informazione che è un diritto, radice di tanti altri diritti. E paga con un’altra moneta altrettanto preziosa: la credibilità e il servizio al bene comune. Per questo è auspicabile che l’esempio valga non eccezione, ma come possibile nuova regola.