di Amedeo Ricucci
Oggi, esattamente 11 anni fa, moriva in Iraq Enzo Baldoni. E ancora mi risuona in testa quel “se l’era cercata” che all’epoca dissero in tanti, anche grazie all’ausilio di una certa stampa, specializzata ieri come oggi nel costruire le macchine del fango. E invece Enzo Baldoni era solo un giornalista: un giornalista free-lance, che scriveva solo di quello che riusciva a vedere con i propri occhi, consumando con generosità la suola delle sue scarpe.
Forse è stato proprio il pregiudizio contro di lui – lui che era solo un giornalista pubblicista, lui che era solo un free-lance – a fare in modo che sulla sua morte non sia mai stata fatta chiarezza e che i suoi poveri resti siano stati riportati in Italia e restituiti alla famiglia solo sei anni dopo, nel 2010. Ma forse quel pregiudizio non è mai morto, tant’è che continua ad abbattersi su tutti quei giornalisti che non si rassegnano a lavorare con i materiali forniti dalle agenzie ma le notizie vogliono cercarsele sul campo, tenacemente, e poi vogliono verificarle in prima persona, anche quando ciò comporta dei rischi.
E’ un modo di lavorare che non va più di moda, lo so, perché le aziende editoriali, ossessionate dalla crisi e incapaci di rinnovarsi investendo sul prodotto, preferiscono campare alla giornata riducendo i costi, innanzitutto delle trasferte. E a farne le spese sono ovviamente gli inviati, ridotti ormai a semplici orpelli di una macchina delle news che non risponde più alle esigenze del buon giornalismo. E’ un trend suicida, di cui già si paga un prezzo. E è un trend che non rende merito a quanti nel giornalismo vero hanno creduto, a prezzo della morte.