di Fabrizio Feo
“Chi dimentica è colpevole” ha detto qualche giorno fa Paolo Siani, il fratello di Giancarlo. Paolo ricorda che oggi ci misuriamo con i frutti di quei mali che prima di essere ucciso dalla camorra proprio Giancarlo aveva denunciato. E quindi non bisogna mollare, proprio sulla strada della denuncia.
La famiglia Siani in questi anni ha rappresentato un esempio di compostezza nel dolore, e dunque se Paolo – impegnato da tempo a fianco di tutti i parenti delle vittime innocenti di camorra- ha deciso di lanciare un forte monito una ragione c’è.
Paolo Siani ha ricordato quanto sia necessaria non solo una battaglia per strappare i giovani alle lusinghe o ai ricatti della camorra ma anche stare accanto ai giornalisti minacciati, che ogni giorno raccontano e denunciano gli affari della criminalità. Come faceva Giancarlo.
30 anni. Tanti ne sono passati da quando la camorra recise la vita di Giancarlo Siani, spezzandone le speranze, l’entusiasmo, l’idea di un giornalismo al servizio di chi era più debole, di chi non aveva voce, e di nessun altro. Dopo 30 anni ripercorri la memoria e gli stessi luoghi , ti guardi intorno , poi provi a voltarti indietro e quasi non ti sembra vero che tutto questo tempo sia passato. Perché pensi a quanto siano stati piccoli e faticosi i passi in avanti e quanto – e dolorose- le sconfitte, e soprattutto a quanto lunga sia la strada perché questo mestiere assomigli ai sogni di Giancarlo.
Ai sogni di molti di noi, condivisi, fortunatamente ancora da tanti. Ignorati o derisi , se non combattuti da molti di più. Oggi come allora. Guai a dimenticare le distrazioni, le omissioni, le collusioni che avevano circondato Giancarlo e preceduto la sua morte. E poi , pensi a quanto è duro il cammino per arrivare alla verità : su mille e uno misteri che restano tali da anni e su altrettante vicende inaccettabili e oscure che si aggiungono ogni giorno. Nemmeno la ricerca della verità sull’assassinio di Giancarlo Siani, come per Rostagno, Impastato, per Ilaria Alpi è stata facile. Tra infiniti ostacoli e subdole manovre.
Nel caso di Giancarlo 15 anni fa si arriva, a fatica, ad una verità giudiziaria, sicuramente non completa, pure accolta come un risultato. Viene sancita nel 2000 dalla sentenza della Cassazione. Si chiude un capitolo della ricerca dei mandanti e degli esecutori tra i camorristi. Un delitto che ad ogni modo indiscutibilmente aveva anche altri ispiratori e beneficiari.
Chi sparò ebbe l’ordine di fermare l’impegno di Giancarlo in un territorio attraversato da conflitti tra clan, un pezzo della Campania in cui era preminente il ruolo dei Nuvoletta e dei Gionta , e dove pure era forte il peso delle cosche di Cosa Nostra siciliana. Un luogo in cui il rapporto tra crimine organizzato e politica era solido, antico, radicato . Erano molti quelli cui il lavoro e l’intelligenza di Giancarlo davano fastidio. Altrettanti gli interessi che aveva disturbato. Guai, ancora una volta, a dimenticare che trascorrono 8 anni , dall’85, anno del delitto, al ’93, quando viene consegnata ai giudici la ricostruzione, pur parziale, che verrà ratificata dalla Cassazione. Come mai viene perso tutto quel tempo? Errori o piuttosto depistaggi? Per anni circostanze e moventi vengono accostati in modo forzato, stiracchiato, spesso compiendo errori , con divisioni profonde tra investigatori e magistrati attestati su tesi diverse. Emergono ambiguità, doppiezze. Troppi segreti indicibili da difendere, che lo stesso sacrificio estremo di Giancarlo, le indagini, potevano far scoprire.
Giornalisti così sono scomodi anche da morti. Sono scomodi spesso anche per chi fa- o dice di fare- la loro stessa professione. Danilo Procaccianti un collega della bella squadra che lavora a “Presa Diretta” ha scritto proprio oggi su Facebook : “Già li vedo oggi tutti i post e i tweet in ricordo di Giancarlo Siani “per il suo coraggio”, “per la sua libertà” e poi ancora “perché lui non si piegava”, “perché aveva la schiena dritta”. Bene lasciate perdere perché è pura ipocrisia. In questo Paese il giornalista libero da fastidio, mal si sopporta e se ne farebbe volentieri a meno…fino a quando è vivo. Da morto è un bel simbolo. Ciao Giancarlo” . Ha ragione. Mi scuso , ma non riesco a dimenticare la fatica che spesso si fa nelle redazioni per pubblicare o mettere in onda qualcosa che vada oltre le commemorazioni di chi è caduto….a volte anche solo per quelle! E allora ecco che il richiamo le parole di Paolo Siani pongono un tema attuale ricordato anche da Giuseppe Giulietti, proprio parlando del sacrificio di Giancarlo: solleva la questione, del giornalismo che sceglie di non restare alla finestra o al chiuso delle redazioni, di non limitarsi a registrare.
“Allora, come oggi, – scrive Giulietti- non mancava chi, anche nelle redazioni, non apprezzava il coraggio, la curiosità ed il rigore professionale di Giancarlo Siani, giornalista scrupoloso e cittadino che credeva nei valori della legalità e della civile convivenza”. Ecco perché oggi non basta più solo “difendere la professione”, non è più rinviabile una battaglia a tutto campo: per dare spazio – si deve cominciare da quello!- e garanzie al giornalismo di impegno civile, al giornalismo che denuncia, che difende i diritti, un modo di fare il giornalista in cui Giancarlo credeva ,come ci credono i tanti che ancora, ogni giorno, non vogliono arrendersi. E’ questione che riguarda tutte le redazioni, nessuna esclusa. Disinteresse per alcuni temi. Notizie e storie cancellate, non considerate degne di risalto , o addirittura anche solo di essere trattate. E chi ne vuol parlare dirottato su altro. Se va bene. O, peggio , spesso trattato come “un fissato” , circondato da indifferenza, isolamento. Accade anche dove non te lo aspetteresti o non dovrebbe. Lì dove l’interesse dei cittadini, dovrebbe essere prioritario.
Così, 30 anni dopo, il caso Siani continua a ricordarci che il giornalismo che interviene nella realtà, non semplicemente per registrarla, ma per concorrere a migliorarla, non è una opzione, un modo di essere giornalisti , ma l’essenza la radice e la ragione stessa di questo mestiere. Che altrimenti è un’altra cosa. Anche per questo “chi dimentica è complice” .