di Antonio Nicita*
La parola dell’anno e l’uomo dell’anno
C’è un destino comune che lega l’uomo dell’anno (Trump, per Time) alla parola dell’anno (‘post-verità’, per Oxford Dictionaries)? Lo scorso settembre l’Economist descriveva Trump “come uno dei prominenti professionisti della post-truth politics” evidenziando come all’allora candidato sembrasse “non interessare se le sue parole avessero una qualche relazione con la realtà, almeno fintanto che esse fossero idonee a infiammare i suoi elettori”.
Che cos’è la post-verità
La post-verità è un concetto interessante (diverso, per intenderci, dalle nozioni di verità ascrivibili al relativismo o al pensiero debole) per almeno tre ragioni. La prima è che essa non corrisponde alla mera bugia. Secondo Ralph Keyes, nell’era della post-verità non abbiamo più verità e bugie ma una terza categoria di affermazioni ambigue che non sono la verità, ma nemmeno del tutto bugie. La seconda è che dal lato dell’offerta – nel ‘mercato’ di post-verità – si nasconde spesso una precisa strategia di ingannevolezza (deception) da parte di chi la propone. La terza – e più trascurata – è che la post-verità non cade nel vuoto ma trova, dal lato della domanda, un terreno già fertile di condivisione, di attesa o di disponibilità alla credulità. Alla post-verità, in altre parole, sottende una relazione di complicità, di emozione e di reciprocità, tra chi, di volta in volta, parla o ascolta. Anche invertendo i ruoli. Per questo la Rete diventa l’ambiente privilegiato della manifestazione della post-verità. Non si tratta dunque di una mera bugia, ma piuttosto della verità desiderata, da chi la professa e da chi la accoglie: ‘tell me lies but hold me tight’, cantava James Taylor.
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* Antonio Nicita è Professore di Politica Economica, Dipartimento di Economia e Diritto, Facoltà di Economia, Sapienza Università di Roma. Dal gennaio 2014 é Commissario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni