di Riccardo Cucchi
Lo comprendevo quando si isolava dal resto dei colleghi e studiava. Che fosse un’Olimpiade o un mondiale. Lui così sorridente e pronto al dialogo, istintivamente amico e pronto a dare fiducia a chi lo avvicinava. Non era indifferenza o alterigia. Era quella febbre che avvolge chi ama questo mestiere e non vuole tradire chi gli ha dato fiducia e responsabilità. Ma soprattutto la febbre chi non vuole deludere chi lo ascolterà: il pubblico, gli appassionati, i telespettatori.
Franco aveva un grande rispetto del pubblico. E il rispetto per il pubblico, lo sapeva bene, passa attraverso il rispetto del microfono. E della telecamera. Ogni volta che si accendeva quella piccola luce rossa Franco sapeva che sarebbe entrato nelle case delle persone. E che un sorriso sarebbe stato il saluto più appropriato, insieme alla precisione nel dare le notizie, alla competenza, all’imparzialità. Che non è mai freddezza.
Le sue telecronache di basket erano un equilibrato mix di trasporto e lucidità. E chi lo ascoltava non poteva sapere quanto lavoro ci fosse dietro: letture, chiacchierate con tecnici e giocatori, ritagli di giornale, archivi personali in tempi nei quali non c’erano ancora i pc ad aiutarti. Fardelli di carta che lo seguivano ovunque ci fosse una postazione da dove raccontare qualcosa, da dove far vivere le proprie emozioni.
Perché Franco ha vissuto questo lavoro come una continua emozione. Come quella di un bambino che attraversa il paese dei balocchi. Ma con la consapevolezza di un ruolo: quello del giornalista del servizio pubblico.
Una grande responsabilità, una responsabilità che ti accompagna in ogni istante della tua vita. La sua Franco l’ha dedicata al lavoro in Rai, un lavoro inseguito con tenacia dopo averlo sognato e desiderato. Una dedizione totale che gli imponeva di accantonare tutto il resto. E di prepararsi per essere all’altezza, ogni volta che si accendeva la luce rossa.
Se fossi stato il suo direttore (spesso ci scherzavamo su quando qualcuno aveva pensato davvero che potesse succedere) gli avrei affidato il compito che meglio sapeva svolgere: fare informazione, intrattenere, spiegare lo sport con gentilezza.
Il pubblico lo sa quando dentro lo schermo c’è una persona sensibile che non vuole blandirti ma raccontare con lealtà i fatti. E le storie di sport.
Qualche volta ci incontravamo nelle brevi pause di lavoro, magari intenti a consumare un pasto veloce. Soli. Perché il mestiere di telecronista o di radiocronista pretende solitudine. E concentrazione. Anche quando si parla a milioni di persone alla fine si è soli. E ce lo dicevamo. Convinti di vivere un privilegio.
Franco era orgoglioso di essere un giornalista della Rai. E la Rai credo debba orgogliosa di averlo avuto come suo giornalista.
La tua eleganza, la tua passione, la tua competenza, la tua sobrietà sono state apprezzate e capite. Dal pubblico soprattutto. Ma anche da chi, come me, sapeva quanti sacrifici c’erano dietro tutto questo. Sacrifici che non ti hanno mai fatto perdere il sorriso. Perché fare questo mestiere è davvero un privilegio. E tu lo hai meritato tutto.