di Davide Maggiore
“Ora qui sembra un deserto: qualche albero laggiù, degli altri più lontano, ma prima c’erano frutteti, manghi, le piante arrivavano quasi al limite del villaggio”. A 25 anni Fary non doveva sforzarsi per ricordare quando la sua comunità, Ronkh, nel nordovest del Senegal, non lontano dal fiume con lo stesso nome, appariva diversa. Ma in poco tempo gli effetti del cambiamento climatico e un grande progetto agricolo, che aveva ridotto la disponibilità di acqua a favore di altre attività, avevano trasformato tutto.
Era il 2016, ma oggi esistono decine di situazioni simili in tutta la fascia di Africa che, da est a ovest, si trova immediatamente a sud del Sahara. E in tanti, a differenza di Fary, decidono di andarsene, nelle grandi città o addirittura all’estero. Al punto che, per chi fugge dalle condizioni sempre più proibitive, è nato un nome: migranti ambientali. Altri parlano addirittura di possibili “rifugiati climatici”. Una definizione per cui non esiste ancora una base legale condivisa. Ma che aiuta a riflettere sulle tante ragioni per cui sempre più persone cercano protezione fuori dal loro Stato di nascita: nel 2017, secondo le Nazioni Unite erano 25,4 milioni i rifugiati riconosciuti e 3,1 milioni i richiedenti asilo in tutto il mondo.
Il pensiero, quando si parla di Africa, corre a vittime di guerre ed emergenze umanitarie: uno stereotipo che, in realtà, non sempre aiuta a capire. Non è stata una guerra ad aver spinto Kanye (nome di fantasia) a lasciare, due anni fa, il sudest della Nigeria, per arrivare, infine, in un piccolo centro del nord Italia, ma un’idea politica di decenni più vecchia di lui, simboleggiata da una bandiera rossa nera e verde con mezzo sole giallo: l’indipendenza del Biafra. Un’idea che ancora oggi può costare il carcere, segno delle tante contraddizioni di un Paese che, pure, ha istituzioni democratiche e vede nascere e crescere realtà economiche innovative. Ma che spesso va stretto alle aspirazioni e agli ideali di molti, soprattutto giovani.
Nessuna meraviglia, quindi, che spesso siano proprio i giovani a scegliere di fuggire. Tanto più da una situazione come quella che si era lasciato alle spalle Michael (nome, anche questo, cambiato per garantirne la sicurezza) arrivato in Italia a metà giugno 2015. Dall’Eritrea, dove i ragazzi come lui devono sottostare a un servizio militare che può durare decenni. E anche quando una paga c’è, spesso è irrisoria: “L’equivalente – ricordava Michael – di 10 dollari al mese, sul mercato nero: poco persino per il pane”.
Eritrei come Michael erano molti dei 177 profughi della nave Diciotti, sbarcati il 26 agosto a Catania dopo giorni di stallo. E fuggivano dallo stesso spettro, nonostante le tensioni con la confinante Etiopia, che per quasi vent’anni avevano giustificato l’arruolamento obbligatorio, siano state dichiarate finite dai due governi e il confine riaperto. Ma senza – per ora – conseguenze concrete all’interno dell’Eritrea, governata con pugno di ferro da un partito unico.
Ancora una volta, speranze tradite. Speranze che tanti cercano ancora al di là del Mediterraneo. E altri, molto più vicino. Infatti non va dimenticato, quando si parla di rifugiati africani, che nel 2017, il Paese che ne ospitava di più era, a sua volta, sul continente: l’Uganda con quasi 1 milione e 400 mila.