di Andrea Rustichelli, giornalista Rai e componente dell’Osservatorio sicurezza e legalità regionale
È cosa nota e studiata (ma mai “normalizzata”) la mutazione, anche antropologica, delle mafie tradizionali che, ormai lontane dai territori originari del Sud Italia, si dedicano ad attività imprenditoriali coi proventi delle attività illecite: proventi che per definizione hanno bisogno di investimenti e di “lavanderie” ad hoc.
Mafie imprenditoriali e migranti che, anche fuori dai propri territori tradizionali, si valgono di un’indispensabile rete di fiancheggiatori e faciltatori: colletti bianchi e professionisti che accompagnano l’infiltrazione criminale nel tessuto economico e quindi sociale (“borghesia mafiosa”, dice il Procuratore di Roma, Pignatone). Una riflessione andrebbe fatta, a tal proposito, sul ruolo cruciale delle banche, degli ordini professionali e delle camere di commercio, col loro registro delle imprese.
Una filiera, quella dell’azienda mafiosa, che comincia dalla sfera criminale in senso stretto (accumulazione di capitali) per dare poi vita ad organismi ibridi che operano nel mercato, inquinandolo (i piedi affondano nel fango criminale, ma la parte superiore del corpo, in giacca e cravatta, è quella rispettabile dell’economia lecita). Una filiera in cui la variegata prossimità a sfere della politica e della Pubblica Amministrazione è, ugualmente, un fatto reiterato e riscontrato anche giudiziariamente. E occorre di nuovo fugare il pericolo della “normalizzazione”, della saturazione; non deve mai mancare la vigilanza e la forza d’urto della stampa.
Quale, appunto, l’utilità di un Rapporto come “Mafie nel Lazio”? Quale la specificità del Lazio? C’è, in primis, la preziosa mole dei dati raccolti, con i materiali giudiziari e investigativi più recenti. E l’importanza del Rapporto dell’Osservatorio regionale, coi capitoli finali dedicati non a caso alle ecomafie e al tema capitale dei beni sequestrati e confiscati, consiste anche e soprattutto nella fotografia d’insieme, che rende ormai d’obbligo il sostantivo plurale “mafie”. La regione, in effetti, si presenta come un grande laboratorio criminale, cerniera tra Sud e Nord (emblema materiale è il mercato ortofrutticolo di Fondi), con al centro Roma Capitale.
Laboratorio in cui convivono organizzazioni come camorra e ‘ndrangheta, ma anche come le mafie straniere dedite al traffico di droga e alla tratta della prostituzione; o ancora come gli autoctoni Casamonica che hanno nella droga e nell’usura le loro principali attività, su un territorio preciso. Ma emblematico è il “caso Ostia”, con la presenza cooperativa di famiglie dominanti (Fasciani, Spada e, in subordine, i Triassi di origine siciliana). “Caso Ostia” che ha il suo fulcro nel famigerato ufficio tecnico del locale Municipio, il X di Roma (oggi commissariato), capeggiato da Aldo Papalini, condannato in primo grado all’inizio di questo febbraio, con l’aggravante mafiosa chiesta dalla Procura di Roma guidata da Pignatone e Prestipino.
Da notare come l’impresa mafiosa, come testimoniano ulteriormente le acquisizioni del Rapporto, abbia almeno tre tratti fondamentali, genetici ed operativi, che la rendono un agente inquinante del tessuto economico e sociale: oltre a valersi di capitali accumulati illecitamente, al proprio interno non rispetta i contratti di lavoro (per non parlare degli adempimenti fiscali e contributivi) e all’esterno abbatte la concorrenza col potere dell’intimidazione. Dumping criminale, insomma.
Accanto a tutto questo si profila, a Roma, la presenza di un sodalizio inedito, sui generis, che sembra avere un rapporto più simbiotico con la Pubblica Amministrazione. E rappresenta un ulteriore “stress test” per l’articolo del codice penale “416 bis”, che configura l’organizzazione criminale di stampo mafioso, istituito nel lontano 1982 (la mafiosità di un sodalizio è data, in sintesi, dalla forza di intimidazione del vincolo associativo, con la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva).
Il Rapporto adombra quest’ultimo e rilevante aspetto, in attesa delle sentenze. Ma perché il Lazio, Roma in particolare, rappresenta un nuovo “stress test”? Perché nel sodalizio autoctono “Mafia Capitale” sembrano mancare (o si fanno molto rarefatti) tradizionali cardini della mafiosità: in primis il “popolo” e il “territorio” di assoggettamento. E la forza del sodalizio, più che nell’intimidazione verticale, sembra risiedere in un potere aggregante: un vincolo più orizzontale, tra “soci”.
Per analizzare e raccontare compiutamente tutto questo occorrerà aspettare il Rapporto 2017 dell’Osservatorio per la Sicurezza e la Legalità della Regione Lazio, previsto a fine anno. E cruciale quantomai, anche per il menzionato “stress test” circa la tenuta del “416 bis”, è l’iter che va dalla formulazione dell’accusa al pronunciamento delle sentenze.
Nel frattempo, questo secondo Rapporto di “Mafie nel Lazio” è uno strumento efficace (con un apparato di dati e di grafici) a disposizione di ogni redazione del Servizio Pubblico.
Link al Rapporto: http://www.regione.lazio.it/rl_osservatorio_legalita_sicurezza/?vw=documentazioneDettaglio&id=36196