di Carmela Giglio
È un tema che brucia quello dei migranti. Perché divide la politica, fa da carburante ad una campagna elettorale già in atto.
E perché tocca le coscienze, e i nostri modelli di vita, o almeno l’ idea che ce ne siamo fatti e che abbiamo paura di vedere andare in pezzi.
Un groviglio di polemiche dai toni spesso astiosi nel quale si rischia di ritrovarsi invischiati ma che soprattutto rischia di offrire uno specchio deformato della realtà.
In Libia noi giornalisti e tecnici della Rai siamo andati non per aggiungere un’altra voce al coro delle polemiche ma per cercare di raccontare quello che avviene “oltre lo specchio”.
Per fare insomma il nostro dovere, il nostro lavoro, prestando occhi e orecchie alla realtà. I nomi di chi in Libia c’è andato non contano.
Conta che abbiamo mostrato, anche a chi non ha voglia di vedere e sentire, l’odissea dei migranti, che dopo essersi gettato il passato alle spalle, mettendo in gioco la propria vita per un futuro incerto e sfuggente, si ritrovano intrappolati in un paese ostile, in una specie di terra di mezzo, senza documenti, né denaro, ne’ diritti. Vite e identità’ spezzate.
Quello che conta, ancora, è che non abbiamo descritto i libici – convinti di essere stati ingaggiati dall’Italia per fare il “lavoro sporco” in sua vece, toglierle insomma le castagne dal fuoco – come un popolo di schiavisti e criminali.
Ma abbiamo cercato di raccontare il contesto di un Paese alla deriva, scivolato da una feroce dittatura nel gorgo di una guerra civile strisciante, fra centri di potere opposti influenzati dall’esterno, in un intrico di legami tribali e scontri tra milizie. Un Paese nel quale, anche per gli stessi libici , legalità e diritti umani non hanno cittadinanza.
Questa volta come tante altre – penso solo per fare un esempio ai riflettori e ai microfoni accesi per raccontare la frustrazione e le attese delle popolazioni colpite dal terremoto in Italia – siamo andati a vedere, a informare, con onestà umana e intellettuale, senza curarci di chi trova scomodo il nostro lavoro, e neppure di chi lo esalta per propri fini.
Questa non è asettica neutralità, che ha paura di smuovere emozioni e toccare nervi scoperti. Questa credo sia l’essenza stessa del nostro lavoro di giornalisti, e di giornalisti del servizio pubblico.