di Domenico Affinito
Torturato e ucciso perché non voleva rivelare le proprie fonti. Chi ha ucciso Giulio Regeni voleva probabilmente conoscere l’identità di chi gli passava le informazioni contenute nei suoi articoli pubblicati sotto pseudonimo sull’agenzia Nena news, specializzata sui temi del Medio Oriente, e in parte ripresi dal quotidiano Il Manifesto. Un lavoro per la tesi di dottorato che aveva portato il ricercatore a incontrare numerose persone del sindacato e, forse, a partecipare anche a qualche riunione.
L’ipotesi che emerge dalle indagini sulla morte dello studente italiano 28enne, ritrovato cadavere in un fosso sulla strada che dal Cairo porta ad Alessandria, getta una luce ancora più sinistra e angosciante sulla sua già tragica fine dovuta, come è scritto nei documenti di chi ha visto il corpo, alle «prolungate torture»: «numerosi e tagli e bruciature» che fanno presumere che il giovane sia rimasto nelle mani dei suoi aguzzi diversi giorni.
Ucciso per impedirgli di continuare a pubblicare articoli, evidentemente ritenuti dannosi per il regime egiziano. Se le ipotesi saranno confermate Giulio Regeni è l’ennesima vittima di chi vuole uccidere la libertà di espressione, la libertà di stampa, la libertà di informazione.
L’Egitto del generale Al Sisi detiene, insieme alla Cina, il triste primato di essere la più grande prigione al mondo per i giornalisti: sono ben 23 quelli in carcere, a cui si devono sommare anche un citizen journalist.
Il Paese è 158esimo nella classifica mondiale della libertà di stampa di Reporter Senza Frontiere, a sole due posizioni dalla black area, quella dei paesi maggiormente liberticidi. D’altronde il generale al Sisi e le autorità militari del Paese, il Mukhabaràt (servizio segreto) in testa, sono note per non tollerare la stampa libera.
La procura militare egiziana spesso usa l’ipotesi di reato di “pubblicazione di notizie false che danneggiano gli interessi nazionali e diffusione di informazioni che disturbano la quiete pubblica” per ridurre al silenzio i giornalisti scomodi.
Al Cairo basta organizzare o partecipare a manifestazioni per essere accusati di sostenere un’organizzazione terroristica. E una volta in carcere le autorità continuano ad utilizzare motivazioni surrettizie per prolungare la detenzione. Al Sisi, in questo non fa rimpiangere Mubarak.
Il governo italiano deve reagire in maniera decisa. Non solo per assicurare la giustizia per la morte di Giulio Regeni, ma anche per non apparire connivente con il regime egiziano.
Dal 2014, dopo che il generale Al Sisi è diventato presidente, il nostro Paese ha intensificato i rapporti con il Cairo e le missioni governative sono state continue nell’ottica di stringere nuovi accordi commerciali.
L’Eni ha scoperto nelle acque egiziane un maxi giacimento di gas, il più grande mai rinvenuto nel Mar Mediterraneo. Sono oltre cento le aziende italiane che operano in Egitto e l’Italia, secondo l’Ice, è il secondo mercato di sbocco in Europa dopo la Germania.
L’interscambio commerciale, secondo i dati Istat, supera i 5 miliardi di euro ed è in aumento del 9,9% (2014 sul 2013), con un export in crescita ad oltre 2 miliardi.
La morte di Giulio Regeni non può essere immolata alla ragion di stato. Come non possono esserlo la libertà di espressione e di informazione.