Intervista di Santo Della Volpe
Vent’anni di sofferenze, di battaglia per ottenere Verità e Giustizia, per superare i depistaggi che hanno tentato di coprire l’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Da quel pomeriggio del 20 marzo 1994, Luciana e Giorgio Alpi hanno chiesto solo di sapere cosa è successo. Perché la sofferenza non si può lenire se non con la conoscenza: quella perdita di una figlia di soli 32 anni e così solare quanto determinata, ha lasciato un vuoto incolmabile.
Ma almeno vedere che la verità si può raggiungere,si può far combaciare quello che si sa,che ormai è emerso dalle indagini e dalle inchieste, con una verità giudiziaria, accertata, stabilita da un tribunale. Questo sì: questo si deve fare,per onorare la memoria di due giornalisti uccisi solo perché avevano lavorato bene e capito quel che stava succedendo nel vasto mondo dei traffici di rifiuti tossici e di armi coperti dai soldi della Cooperazione italiana. Era il 1994, in piena esplosione di tangentopoli,quella inchiesta poteva toccare e far esplodere connivenze e tangenti, ma anche servizi deviati e inconfessabili complicità. Hanno cercato di coprire tutto uccidendo due giornalisti. «Cinque magistrati, vent’anni di indagini, un solo colpevole, sicuramente innocente» dice Luciana Alpi. Ma la storia ed il lavoro giornalistico di altri cronisti hanno ribaltato e aperto quei fusti maleodoranti e quegli armadi della vergogna.
“Ma non ancora abbastanza per far riaprire le indagini,per dare giustizia e far uscire dal carcere una persona,condannata per mettere a tacere tutto” dice Luciana Alpi, rimasta sola dopo la morte di Giorgio Alpi ma che anche in nome del marito,porta avanti questa battaglia di giustizia e verità: “qualche tempo fa, dopo processi e commissioni d’inchiesta approdate a nulla ,avevo deciso di chiudere questa ricerca di verità. Mi ero detto basta,non ci credo più. Ma oggi ho più speranze:si oggi si…”
Perché si è appena conclusa la cerimonia alla Camera dei Deputati per i 20 anni da quella atrocità a Mogadiscio: un Requiem africano che appare come un possibile nuovo inizio. La presidente Laura Boldrini ha annunciato la richiesta al Governo affinché si esamini la possibilità di togliere il segreto di Stato sulle indagini che riguardano i traffici di rifiuti. “Ho chiesto al governo”, ha spiegato il presidente Boldrini, “se permangono le esigenze di segretezza sugli atti relativi all’omicidio di Alpi e Hrovatin. Analoga richiesta è stata avanzata per gli armadi della vergogna”. Un annuncio atteso, cui ha fatto seguito anche la trasmissione al Presidente del Consiglio della richiesta analoga supportata da più di 60mila firme raccolte da Change.org su una petizione di Articolo21. Luciana Alpi sente che si sta muovendo qualcosa, che forse si riapre la stagione dell’inchiesta. E’ una speranza che avanza dopo tante amarezze, anche se l’esperienza di questi venti anni è fatta di speranze e delusioni e poi ancora speranze. Una altalena di sentimenti talvolta spossante.Luciana, cosa ti ha fatto indignare in questi anni?
«Questa mancanza di verità … Poi il modo di lavorare della Procura di Roma che non ha fatto niente, a parte i depistaggi… L’ho vissuto anche come una mancanza di rispetto per due persone morte in modo così atroce che mi ha fatto molto arrabbiare ».
Come nel suo stile, Luciana Alpi, passa dalla denuncia al ricordo. Di Ilaria quando andò in Egitto a studiare l’arabo e fece una intervista ai fratelli mussulmani che il governo di Mubarak voleva evitare; sino all’ultima volta che sentì la sua voce al telefono :«Ha telefonato due ore prima dell’agguato. Sono molto stanca – ha detto – adesso faccio la doccia, mangio qualcosa, poi devo preparare il servizio… Io e mio marito eravamo sollevati, perché dopo essere stata a Bosaso, finalmente era tornata a Mogadiscio, dove conosceva tutti. Due ore più tardi abbiamo ricevuto un’altra telefonata. Era la Rai…».
Dai ricordi alla ricerca del perché: quell’ultima intervista al sultano di Bosaso, vista e rivista:«Centinaia di volte. In Italia sono arrivati 35 minuti di girato, 13 minuti di domande. Ma è stato lo stesso sultano Bogor a dichiarare che quell’intervista, in realtà, era durata due-tre ore.Io credo che in quella intervista ci sia la chiave della morte di Ilaria e Miran.. Lo ha detto il sultano stesso: Ilaria cercava conferme. Sapeva quindi del traffico di armi e rifiuti. Voleva vedere la nave della Shifco, donata dalla cooperazione italiana. Di questo si stava occupando quel giorni…Nei taccuini su cui Ilaria aveva preso degli appunti, per esempio, c’erano scritte molte cose: i 1400 miliardi di lire della Cooperazione italiana; la strada Garore-Bosaso, fatta sempre dalla nostra Cooperazione; il nome di Mugne, l’armatore di una flottiglia italo-somala; quello di Marocchino, l’imprenditore che gestiva l’approvvigionamento delle nostre truppe. Ilaria indagava sul traffico di rifiuti e cercava risposte sullo scandalo che coinvolgeva il nostro ministero degli Esteri, quello della Difesa, i nostri Servizi, le società coinvolte nello scambio armi-rifiuti. Noi fomentavamo una guerra che eravamo andati a placare. Lo scandalo era enorme. Soprattutto in quell’epoca…E poi ricordo che mi disse di voler chiedere di restare ancora qualche giorno in Somalia…Doveva partire perché ormai i soldati italiani stavano andando via,ma lei voleva andare a Kysmaio,che è un altro porto della Somalia. Voleva altre conferme, forse c’era di più in quella intervista che non è mai arrivata a noi.Tagliati i nastri; e poi sono scomparsi anche i taccuini degli appunti…Dopo alcuni anni ho notato in uno speciale televisivo fatto di Gianni Minà che all’aeroporto di Ciampino quella notte del ritorno a casa delle bare di Ilaria e Miran,i bagagli di mia figlia erano stati aperti. Ma da Luxor erano partiti con i sigilli…».
Misteri svelati sempre parzialmente dai processi che si sono svolti; svelati più dai giornalisti che dai magistrati, senza mai arrivare ad una verità giudiziaria finale, con addirittura conclusioni sbalorditive della commissione d’inchiesta parlamentare guidata dall’avvocato ex deputato, Carlo Taormina che ha parlato di un tentato rapimento…«Ilaria e Miran sono stati uccisi con colpi sparati da distanza ravvicinata. Non credo che si faccia così quando si vogliono prendere degli ostaggi… Strano sequestro, quello che prevede l’esecuzione dei rapiti…».
E poi Taormina che dichiara: ma quale sul traffico d’armi, tutti sapevano che la Somalia era un grande mercato d’armi a cui l’Italia partecipava attivamente:«Sono rimasta senza parole” continua Luciana Alpi; “Persone delle nostre istituzioni che si permettono di dire cose del genere, nella totale indifferenza…». Se per quello sappiamo anche che è arrivato a dire che Ilaria e Miran erano andati lì in vacanza… «Una cosa talmente volgare, non gliela ho mai perdonata. Poteva dire: mi dispiace, non abbiamo trovato niente, l’inchiesta era difficile. Avrei capito…».
Parole in libertà per coprire altri depistaggi? Forse, ma certamente negli atti della Commissione d’inchiesta ci sono altri documenti importanti. Tutti ancora secretati. Alcuni invece spariti, come il certificato di morte di Ilaria e Miran.Nel 1995, la procura di Reggio Calabria indagndoa su un traffico internazionale di rifiuti tossici, fa una perquisizione a Milano a casa dell’ingegnere Giorgio Comerio. Dentro una cartellina gialla con sopra scritto «Somalia», viene trovato quel certificato di morte . E poi?
«Nulla. Quel certificato non si è più trovato. Sparito. E adesso dicono che non era vero niente. Il mio avvocato, Domenico D’Amati ed io siamo stati chiamati dal pm Francesco Neri, il titolare dell’inchiesta. Ha voluto incontrarci qui a Roma. Le sue parole non erano fraintendibili, ci ha spiegato che in quella cartellina c’era il certificato di morte e che c’era anche altra documentazione. Tutto sparito nel nulla».
Una parola ferma Luciana Alpi la vuole ripetere sull’unico condannato per la morte di Ilaria e Miran, Hashi Omar Hassan, rinchiuso a Padova da quasi 10 anni.«L’unico condannato per l’omicidio di mia figlia, mi ha telefonato pochi giorni fa da Padova, al primo permesso fuori dal carcere. Lui anche al processo mi chiamava mamma “Ciao mamma, come stai? Volevo ringraziarti” E perché? gli ho chiesto. E lui mi ha risposto: Il magistrato mi ha fatto uscire perché tu racconti in giro che sono innocente. E lo ridico ancora, qui. Vorrei la verità sulla morte di Ilaria e Miran anche per Hashi, definito nella sentenza di primo grado esattamente per quello che è: un capro espiatorio».
Ma perché non si vuole la verità? «Ci sono state troppe collusioni. Probabilmente sono implicati personaggi importanti anche delle istituzioni…che devo pensare ,che forse aspettano che muoiano… Ma temo che morirò prima io, il che mi da parecchio fastidio… Comunque il 6 marzo scorso abbiamo incontrato il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Mi ha detto che andranno avanti. È stato molto gentile e non tutti lo sono stati. Ma ora speriamo che tolgano il segreto da quella montagna di carte ancora da esaminare e leggere per via di quel Segreto di Stato..Anche se non so cosa ci faranno leggere e vedere… Sono 8000 documenti…».
Di Ilaria,comunque ci resta molto,anche se, come dice Andrea Vianello (oggi direttore di RAI3, entrato in azienda con un concorso voluto dal sindacato Usigrai proprio insieme ad Ilaria Alpi) questo ed altro, il ricordo e la memoria,quel viaggio e quella inchiesta comunque no, non ne valevano la pena. Perché di Ilaria e Miran ci manca la vita e per noi che l’abbiamo vista arrivare al TG3, ci manca il suo viso ed il suo sorriso, così come amnca alla mamma:” «Il suo sorriso…. era molto spiritosa…Ma non voglio farne un monumento simbolico. Era una giovane donna, che aveva studiato molto. Era diligente, faceva le cose in modo serio. Prima di un servizio si documentava a fondo, studiava. Era determinata».
Ed è diventata un simbolo positivo,di un giornalismo coraggioso ma semplice, che ha seguito le rotte di questo nostro mestiere,fatto di passione e competenza. Oggi non solo è viva nella memoria collettiva, soprattutto dei giovani, ma è un simbolo di speranza,di futuro,anche se non c’è più fisicamente. E’ la capacità di vivere sempre delle persone e dei percorsi di vita giusti, semplicemente giusti. “ Le hanno dedicato canzoni, strade, articoli, film, libri. Molti giornalisti ancora lottano per lei. Presto le verrà intitolato un parco… E un ragazzo di 28 anni chiamerà “Ilaria” un nuovo tipo di rosa, che verrà piantato all’orto botanico di Roma, a maggio. Mi commuove molto» conclude Luciana Alpi. Che con determinazione continua la sua vita di memoria, di vuoto per quella figlia che le è stata strappata, ma anche di ricerca di verità.
«È morto mio marito. È morta anche la gattina che Ilaria aveva raccolto in mezzo alla strada…. Ma io non mi arrendo. Voglio vedere se le nostre Istituzioni hanno il coraggio di affrontare la verità. Voglio capire perché Ilaria e Miran sono stati uccisi. Ottenere la conferma di qualcosa che tutti i protagonisti conoscono. Ma che l’Italia ha paura di ammettere.Continuerò a combattere per la verità. Cos’altro potrei fare?».