di Vincenzo Frenda
“Quello che mi stupiva dell’Emilia erano tutte queste rotonde che
nascevano dal nulla, da un giorno all’altro. Mi sembrava strano, mi
chiesi il perché. Mi chiesi anche come mai qui si costruisse così tanto”.
E’ stato sufficiente aprire gli occhi a Sara Donatelli, 24 anni, siciliana
trasferita nel modenese, per capire che nella virtuosa terra emiliana,
teatro delle più eroiche e cruente battaglie partigiane, si insinuasse
qualcosa a lei molto familiare: la mafia.
“Mi dicevano: vedi la mafia ovunque, ma io leggevo di roghi dolosi
apparentemente inspiegabili, e poi vedevo zone edificate dal giorno alla
notte. Per un periodo ho lavorato in una pizzeria di un calabrese dove
ogni giorno arrivava a mangiare un gruppo di suoi conterranei che però
non pagava mai. Ma nessuno si stupiva. Ho fatto delle ricerche, il
titolare era un pregiudicato in affari con i clan calabresi”.
I fenomeni mafiosi lasciano molte tracce nei territori che intaccano,
tracce che non sono sempre uguali. Bisogna saperle individuare ed
interpretare, annodare i fili dei fatti e per farlo servono occhi ben
aperti. L’Emilia invece si credeva al di sopra del rischio di
contaminazione mafiosa e questo ha tenuto le difese basse
permettendo ai clan di entrare dalla porta principale.
La Dia nella sua ultima relazione ha detto che “l’emilia è terra di
‘ndrangheta da almeno un decennio” e che “silenzio e
sottovalutazione” del fenomeno hanno permesso ai clan di
impadronirsi di pezzi importanti dell’economia locale nel silenzio
generale.
Non a caso il 28 gennaio del 2015 quando la procura distrettuale
antimafia di Bologna ha arrestato 117 persone fra imprenditori,
professionisti, politici, uomini dei clan legati alla ‘ndrangheta, l’Emilia
è rimasta sgomenta nello scoprirsi diversa da come si credeva.
Nel marzo del 2016 è iniziato il processo Aemilia, il più grande
processo di mafia al nord, così Sara Donatelli insieme a Sabrina
Natali del movimento delle Agende Rosse di Modena hanno deciso che
non bastava indignarsi e restare a guardare.
“All’inizio volevamo solo pubblicare la rassegna stampa sul processo.
Poi siamo andate alla prima udienza e ci siamo accorte che non
sarebbe bastato. Dovevamo fare di più. Abbiamo iniziato a trascrivere
ogni udienza, ogni interrogatorio, ogni deposizione per poi metterla su
facebook e sul sito processoaemilia.com”.
Una mole di lavoro enorme che porta i nomi, i fatti, le tecniche di
infiltrazione ‘ndranghetiste fuori dall’aula bunker di Reggio Emilia per
affidarle alla coscienza e conoscenza collettiva.
Un lavoro che ha dato fastidio agli imputati detenuti in carcere che
all’inizio di una delle ultime udienze, attraverso un loro portavoce
hanno chiesto di cacciare i giornalisti dall’aula, indicando fra i
responsabili di una cattiva informazione oltre a giornali e tv locali
anche Sara e Sabrina.
“Ce lo aspettavamo prima, c’erano stati già dei sentori. Ai parenti degli
imputati ha dato fastidio da subito. Non venivano direttamente a
dircelo, ma nelle pause del processo Aemilia si mettevano accanto a
contestare il nostro lavoro. Dava fastidio tutta questa pubblicità al
processo. Poi sulla pagina facebook compaiono di continuo i like dei
parenti degli imputati, mandano messaggi con i sorrisini, per far capire
che ci leggono, che sanno che ci siamo”.
Il tentativo delle associazioni mafiose è quello di tenere i processi in
sordina, per evitare che l’indignazione dell’opinione pubblica porti a
pene più severe e che la pubblicità dei media sveli a tutti i
meccanismi mafiosi rendendoli meno efficaci.
“Non abbiamo paura, non abbiamo pregiudizi nei confronti degli imputati
e ho rispetto per i loro parenti. A noi interessa che si sveli il sistema”.
Un compito difficile perché ancora oggi molti politici locali tendono a
derubricare il radicamento mafioso emiliano ad un contagio
facilmente debellabile. In questo modo il livello d’attenzione cala e si
torna vulnerabili.
“Io studio a Ferrara e qui sono su un altro pianeta, considerano Reggio
Emilia una terra lontana e si sentono fuori dai pericoli. Ma in generale
l’idea che la gente si è fatta della vicenda è che un territorio puro sia
stato inquinato dai clan che sono venuti dal sud a fare i loro sporchi
affari. Non è cosi. Questo viene descritto come un processo contro un
clan di calabresi. Ma non è solo questo. A processo c’è un sistema, dove
c’è anche un clan calabrese, ma ci sono anche politici, giornalisti, forze
dell’ordine, notai, imprenditori locali che hanno beneficiato di questo
sistema. Al centro dello schema c’è il clan Grande Aracri, che ha potuto
vivere, estendersi ed ingrassare perché c’era un sistema che gli girava
attorno e faceva affari con lui. Un sistema fatto di imprenditori, uomini
dello stato, giornalisti emiliani”.
La ‘ndrangheta in Emilia “ha fatto il salto di qualità, ha rotto gli argini
entrando in contatto con il tessuto economico locale” ha detto il gip
Francesca Zavaglia nelle motivazioni con cui ha condannato con rito
abbreviato 58 persone ad oltre 300 anni di carcere nell’udienza
preliminare del processo Aemilia.
“Se le mafie formano una rete transnazionale aiutandosi a conquistare
territori e capitali vuol dire che anche chi la combatte deve fare la
stessa cosa”.
Da questa idea è nata Mafie Sotto Casa, un sito dove le associazioni
antimafia locali mettono in comune le proprie conoscenze, le proprie
notizie, le proprie analisi; tasselli che come in un puzzle compongono
un quadro globale del fenomeno mafioso molto più comprensibile e
dunque contrastabile. Un lavoro fra giornalismo investigativo e data
journalism in cui si segnano gli episodi criminali anche i più modesti
come i reati-spia per darne poi una interpretazione.
“Parlare di episodi, segnarli senza trascurarne nemmeno uno consente
di comporre una mappa organica. Ad esempio la Romagna ha molti
beni confiscati e in Emilia ci sono molti roghi dolosi segno di due sistemi
mafiosi diversi. Segnarli geograficamente su una cartina aiuta a capire
i fenomeni. Le mafie non sono invisibili. Si fanno sentire. Bisogna solo
saper leggere i segnali che il territorio manda”.