di Daniele Cerrato, presidente Casagit
Ci sono tante e diverse Rai, sono tutte Radiotelevisione italiana, sono tutte Servizio Pubblico – almeno per ora – sono tutte esposte da anni a una facile berlina. Privilegiati, raccomandati, lacchè di politicanti, “ladri per via del canone” eccetera.
Fin qui nulla di nuovo e soprattutto nulla di utile per nessuno. Ho conosciuto, credo, in profondità questa nostra azienda che continua, suo malgrado, a far notizia anche tra i giornalisti italiani.
I più scettici si dividono in due grandi recinti d’anime: chi odia la Rai perché non ha mai potuto aspirare a entrare in una delle sue redazioni, chi odia la Rai per averlo illuso e poi non accettato. Cose brutte, che tuttavia lastricano il pavé davanti alle sedi dell’azienda di Servizio Pubblico, ovunque si trovino.
Ma se invece di seguire la solita strategia “vincente” dei capponi di Renzo e beccarci a testa sotto fino alla cucina, vogliamo provare un ragionamento di maggiore prospettiva dobbiamo intenderci sul fatto che questa azienda, pur custode di tanti vizi italici, è uno dei pochi motori ancora sani del welfare complessivo dei giornalisti italiani, delle nostre previdenza e assistenza. E’ soprattutto uno dei pochi giornali che ha nei suoi obblighi fondativi raccontare tutte le facce del paese, cosa che la fa diventare ancora più controversa.
L’8 maggio, tradizionale Giornata della Mamma, mamma Rai chiede attenzione e ci sarò a testimoniare che sulla prospettiva di tagliare, o meglio prelevare, soldi al Servizio Pubblico si gioca una partita che non può essere indifferente agli italiani. Italiani tutti, una volta tanto.
La partita non è sui soldi ma su come cambiare il Servizio Pubbico radiotelevisivo. Si potrebbe decidere che anche i programmi devono raccontare il Paese reale: troppi ballano sotto le stelle perché hanno perso la casa. Decidere che il canone come tassa va pagata finalmente da tutti e magari anche ridotta. Si potrebbe provare a uscire dall’angolo della politica che serpeggia ancora nei corridoi di viale Mazzini e in quelli delle redazioni. Ha senso avere tre Tg, uno per la Democrazia Cristiana, uno per il PSI e uno del PCI? Non aveva senso trent’anni fa perché mai dovrebbe averlo oggi che le ceneri di quei partiti nessuno sa più dove siano state sparse?
La voglia di tagliare anche in Rai somiglia alle auto blu dei ministeri finite su EBay. Tolti pochi collezionisti se le stanno comprando tassisti che rivenderanno i proprii servizi a quegli stessi enti pubblici che le hanno dismesse. Solo che saranno auto blu a noleggio. Ma intanto si è incassato un utile applauso.
Tagliare sul Servizio pubblico radiotelevisivo è ulteriore prova di miopia se proposto oggi quando è matura la volontà di cambiare partendo dall’interno dell’azienda. Ecco perché dobbiamo esserci l’8 maggio come un mondo che vuole affermare se stesso e il suo diritto a migliorare. Dobbiamo dire con tante voci, ricche di differenze, che se il Governo promette 120 milioni di aiuti all’editoria italiana, fondamentali per favorire il Contratto di lavoro dei giornalisti italiani, salvaguardare un settore in crisi e il diritto a essere informati in Italia, meno ovvio è che ne chieda 150 alla Rai.
Non vorrei che, per sommo paradosso, una Rai che proprio grazie al sindacato dei suoi giornalisti, non vuole abbandonare la via delle selezioni e dei concorsi pubblici e ha progetti da mettere sul tavolo di un servizio “al” pubblico, diventasse meno interessante per i nuovi modi di far politica. Non vorrei che all’insegna del “cambiamo tutto” si cercasse di cambiare cavallo per tornare al trotto di sempre. Sarebbe un modo per scipparci tutti.