di Vania De Luca
È dai primi anni 2000 che il Rapporto Censis- Ucsi sulla Comunicazione disegna puntualmente da un lato lo stato del sistema dell’informazione in Italia individuandone caratteristiche e criticità, dall’altro le modalità di fruizione delle notizie da parte degli italiani, costituendo un prezioso strumento di analisi su quello che è uno degli indici di qualità della nostra democrazia, fornendo il quadro di uno spaccato culturale del nostro Paese e anche dell’idea di cittadinanza che questo è in grado di esprimere.
Potremmo dire banalmente: “dimmi come ti informi e ti dirò che cittadino sei”, ma all’opposto, guardando all’altro lato della medaglia, potremmo dire: “dimmi COME e QUALE informazione produci, ispirandoti a quali CRITERI”, e ti dirò che Paese, che cittadini aiuti a formare.
Con il rapporto di quest’anno siamo arrivati all’edizione numero tredici, e questa continuità nel tempo è uno degli elementi interessanti dello studio, che fotografa lo stato dell’arte oggi, ma consente allo stesso tempo di cogliere quelle linee di evoluzione nel tempo del sistema dei media in rapporto con gli italiani, con il loro modo di comunicare e di porsi nell’universo comunicativo.
È anche guardando al passato che riusciamo a essere più consapevoli dei processi in corso e a costruire un futuro che non sia una mera riproduzione di schemi già visti, ma sia il frutto di scelte volute.
È per questi motivi che l’Ucsi, (dalla cui proposta, favorevolmente accolta dal Censis, nacque questo percorso sviluppatosi fino ad oggi) continua a sostenere la validità del Rapporto sulla Comunicazione, e auspica la prosecuzione della ricerca, pur verificandone linee e modalità.
La scientificità della ricerca spetta ovviamente al Censis che di fatto la realizza, noi come giornalisti e comunicatori possiamo continuare ad offrire il nostro contributo condividendone i filoni di analisi con la specificità del nostro sguardo, sapendo che siamo pienamente immersi nei processi che si vanno via via ad approfondire, ne facciamo parte. Insomma, il Censis legge processi, noi ci siamo dentro, e i cambiamenti degli ultimi anni sono stati così veloci che strumenti come questo ci aiutano a capire, come informatori, ci siamo e in quale scenario ci muoviamo.
L’Unione cattolica della stampa italiana, è fatta da giornalisti che lavorano in testate laiche oppure cattoliche, e che a titolo personale decidono di aderire. Oggi sia le testate laiche che quelle cattoliche vivono processi di trasformazione profonda, se non vere e proprie riforme di sistema (si pensi ai medi vaticani, alla Rai, ai grandi gruppi editoriali, al circuito promosso dalla conferenza episcopale italiana). In questo panorama in trasformazione sin evoluzione non si tratta solo di approfondire tematiche per addetti ai lavori, ma anche di offrire spunti di una cultura collettiva sui media, sul loro effettivo impatto e sulle concrete implicazioni sul piano sociale.
Il tema di oggi, “I Media tra élite e popolo”, segue a quello del 2015 sull’economia della disintermediazione digitale, a quello del 2013 sull’evoluzione digitale della specie, a quello del 2012 intitolato “I media siamo noi. L’inizio dell’era biomediatica”, caratterizzata dalla trascrizione virtuale e dalla condivisione telematica delle biografie personali attraverso i social network, con il soggetto e l’oggetto della comunicazione che tendono a coincidere. La “fenomenologia del selfie” è un delle immagini simboliche di questo processo, e l’ha intuitivamente capito quel grande comunicatore che è Papa Francesco che non credo legga studi o rapporti sul tema ma che si presta al “selfie” quando l’occasione lo richiede.
Oggi nell’era biomediatica siamo pienamente immersi. Lascio al Censis la lettura in dettaglio dei principali dati emersi quest’anno, soffermandomi solo su qualche macrotendenza che ci pone più di una domanda. Innanzitutto la presa d’atto che “tengono” televisione e radio, mentre perdono lettori i quotidiani cartacei, scelti dal 40,5% degli italiani a fronte di un aumento dei lettori on line. Poi la penetrazione di internet che aumenta di 2,8 punti percentuali nell’ultimo anno con l’utenza della rete che tocca un nuovo record, attestandosi al 73,7% degli italiani. Le donne si affermano come i nuovi motori nel consumo dei media.
Si disegna un quadro di frattura generazionale, con giovani e anziani sempre più distanti. I Social network fanno parte della vita quotidiana, e l’ informazione evolve da un modello tele-centrico a una concezione ego- centrica.
Mentre si allarga il solco tra élite e popolo, gli strumenti della disintermediazione digitale si collocano in questo cuneo, prestandosi, come si legge nel rapporto, “all’opera di decostruzione delle diverse forme di autorità costituite, fino a sfociare nelle mutevoli forme del populismo, antisistema e radicale, che si stanno diffondendo rapidamente in Europa e in Occidente. Si tratta di una sfiducia nelle classi dirigenti al potere e di un rigetto di istituzioni di lunga durata che si saldano alla fede nel potenziale di emancipazione delle comunità attribuito ai processi di disintermediazione resi possibili dalla rete.”
In questo quadro, nel mezzo di una rivoluzione digitale che ci coinvolge tutti, l’Ucsi vive al suo interno un cambio generazionale, come è sano che sia, e facendo memoria della sua storia “alta” di quasi sei decenni, si pone e pone quelle domande aperte che credo coinvolgeranno anche i nostri percorsi futuri. Provo ad accennarle.
Che qualità dell’informazione viene oggi garantita e qual è lo stato del rapporto di fiducia con i cittadini da parte dei piccoli come dei grandi giornali, delle principali emittenti e dei siti di informazione? Dove vanno la Rai e il servizio pubblico, cosa ne è delle storiche funzioni dell’educare, informare, intrattenere? Che paese stiamo raccontando e costruendo?
Quale idea e quale reale esperienza di pluralismo e di libertà stiamo veicolando? C’è uno spazio per un’etica dei media e per un’etica di chi a diverso titolo lavora nei media? Quale attenzione per i grandi temi sociali del nostro tempo? Cito come esempi la guerra e la pace, il terrorismo, il grande movimento migratorio che vede l’Italia in prima linea, la tutela dei minori, il lavoro che manca e la ripresa che non si vede, le riforme in corso, a partire da quella costituzionale… E poi l’emergenza di queste settimane, con il terremoto nelle regioni del Centro Italia e le sfide poste dalla ricostruzione. Più che notizie sono processi, e l’informazione vi è dentro, li guarda, li racconta, aiuta a comprenderli, e in questo speriamo sia in grado anche di aiutare a orientarli in un senso più giusto, più sano, più umano, più inclusivo, vincendo quelle tentazioni di tutela degli interessi di parte che sono tanto congeniali a una mentalità purtroppo radicata e diffusa nel nostro paese, a diversi livelli.
Concludo con due parole semplici, un sostantivo e un aggettivo, forse un po’ fuori moda, eppure così urgenti per il nostro futuro: BENE COMUNE.
Solo se saremo in grado di cercare, ciascuno per il proprio ruolo, ciò che serve a ri-costruire bene comune usciremo da quella spirale di pessimismo e di negatività, di egoismo e di demagogia che a nulla porta se non ad accentuare sempre di più lo iato tra èlite e popolo.