di Claudio Valeri – giornalista del Tg2
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Quando fu varata la riforma della Rai, a metà anni ’70, il premier Matteo Renzi era poco più di un neonato, Silvio Berlusconi non aveva ancora 40 anni e soltanto progettava la sua avventura televisiva, Bettino Craxi doveva ancora diventare segretario del Psi e nessuno in casa aveva un computer. C’ero anch’io, avevo 20 anni e studiavo, senza alcun interesse e successo, giurisprudenza. Questo per capire che di tempo ne è passato. Fin troppo.
Quella riforma diede vita a molte cose, dall’autonomia del tg2, all’ipotesi di un’azienda aperta all’informazione regionale, fino alla nascita del tg3. Nelle Reti si diede vita a spettacoli di varietà e intrattenimento impensabili anche pochi anni prima, mentre in Azienda la parola lottizzazione prese il sopravvento su molte altre, anche nell’informazione.
Nell’immaginario collettivo c’erano il tg1 democristiano, il tg2 socialista e il tg3 comunista, mentre nelle redazioni nasceva, tra i contrasti, un’opposizione professionale a questa, pur forte, semplificazione. L’Usigrai si prese l’impegno di superare quella lottizzazione così mortificante e così poco ideale e di privilegiare criteri di assunzione e di avanzamenti in carriera basati su concorsi e qualità dimostrate.
Ci è riuscita, almeno in parte? E’ stato un sindacato sempre coerente? Io credo che sia stato, nei momenti cruciali, l’unico punto di riferimento per i colleghi. A testimonianza, anche le critiche ricevute e ascoltate. Errori ci sono stati, pratiche infamanti mai. Quella stagione della lottizzazione era destinata a finire con “tangentopoli” e gli sconvolgimenti politici che ne seguirono, ma anche tentativi seri di autoriforma, come il “piano Murialdi” furono spazzati via, prima ancora di essere varati, dal susseguirsi degli avvenimenti, mentre la concorrenza, inizialmente caratterizzata dalle Reti di Silvio Berlusconi, metteva a dura prova la resistenza della Rai, abituata ad operare in un regime di monopolio che gli consentiva di fare scelte anche di carattere culturale, innovative, quasi spregiudicate, come di perseverare nelle abitudini, senza l’angoscia del confronto sui dati di ascolto, ovviamente dominanti in un regime di concorrenza.
Così il Servizio Pubblico è diventato negli anni, anche per colpa sua, troppo simile alle televisioni private che, peraltro, hanno in parte raccolto patrimonio e funzioni della cosiddetta tv di Stato, oltre alla già citata, contesa e talvolta favorita pubblicità. La querelle sul conflitto di interessi ha alimentato il dibattito politico e sono conosciute le posizioni emerse in questi anni, mentre il sorgere della tv satellitare a pagamento ha ulteriormente ingolfato un settore che ora si trova a fare i conti anche con gli spazi on-line su cui si sono gettate, con impegno e capacità, pure le testate della carta stampata per superare, per quanto possibile, la propria crisi.
E’ ora evidente che rispetto alla riforma della metà degli anni ’70 il compito, anche soltanto aziendale, di una riforma, deve tener conto di una realtà molto più complessa. Intanto la Rai non può pensare, come allora, soltanto alla sua espansione in un contesto favorevole alla sua crescita. Purtroppo il clima non è un granché. Oggi la Rai deve consolidare e rilanciare un ruolo di Servizio Pubblico moderno ed efficiente, ma anche libero e portatore di novità. Cioè portatore di idee e qualche colpo di genio non guasterebbe. Perché qui, a mio parere, sta il punto della riforma.
La Rai sa che non può rincorrere idee e strategie altrui, ma che deve obbligatoriamente fare un salto di qualità sul prodotto cercando, nella propria storia e nelle proprie risorse professionali di oggi, la chiave per aprire la porta della televisione del futuro. Ed anche se appare difficile, ad alcuni quasi impossibile, l’Azienda, spero con i rappresentanti dei lavoratori, deve pensare in grande.
Sono pazzo? Può essere, ma credo che non ci sia altra scelta. Non esistono riforme fatte soltanto per risparmiare, per contenere, ma riforme volte a far crescere le opportunità e quindi guadagnare pubblico, stima, credibilità e pure pubblicità (se ci sarà).
Ancora prima di organizzarla dovremmo pensare a quale Rai vogliamo. Proprio come negli spot per il pagamento dl canone, dove si sottolineava l’importanza, quasi l’indispensabilità, della televisione. Poniamoci la domanda: perché è importante la televisione e, in questo contesto, perché è importante la Rai, il Servizio Pubblico?
Come dobbiamo farlo e cosa non possiamo non fare per essere credibili e non buttati in rimessa come una qualunque municipalizzata in deficit? E di cosa abbiamo bisogno per raccontare la realtà, la vita, la morte, la complessità dei rapporti umani, un dramma di migliaia di persone e di una persona sola, la gioia di uno spettacolo o l’intensità di un film, oltre a qualche partita di calcio rimasta in chiaro? E in Rai, poi, dobbiamo saper distribuire le informazioni in tg di notizie, in approfondimenti, in pagine web, per radio, la vecchia, sempre giovane, radio.
Dobbiamo farlo insieme collaborando. Bisognerebbe prendere questa abitudine.,Ma dovremmo anche dare qualcosa di più con una storia diversa, un punto di vista inaspettato, una sollecitazione che dia il via ad una nuova curiosità per andare a cercare un’altra notizia. Non è facile semplificare il lavoro giornalistico senza correre il rischio di impoverirlo. E non è rincorrere la vecchia, mai doma, lottizzazione, ma un po’ di sana concorrenza interna può far del bene, sempre che non si abbiano intenti suicidi, ma, al contrario, il desiderio di dare di più.
E anche a questo dovrebbe pensare la riforma, a dare la possibilità di seguire davvero gli avvenimenti e non soltanto sul proprio schermo del computer attraverso le agenzie internazionali. Se continueremo a fare aggiornamenti professionali (pur necessari) soltanto sulle tecnologie il rischio c’è. Vorrei che fosse data la forza alle redazioni Rai di riuscire a raccontare: con poche righe, con le parole di un reporter e con quelle di un’intervista, col respiro di un reportage, con i testi, le immagini e il montaggio.
Con la voglia di farlo il mestiere di giornalista per un’Azienda di Servizio pubblico dove si può fare sapendo di dover rispondere, oltre alla deontologia professionale, soltanto al pubblico. Scrivo che è tardi, ma non sto sognando, solo un pizzico, riformando.