di Angelo Figorilli
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Caro Sindacato, caro Direttore generale, dite che ci siamo? Che siamo arrivati davvero al punto di mettere sul tavolo forze, idee per una riforma radicale dell’informazione televisiva della Rai? Va bene, vi credo e vi dico la mia, l’opinione di uno dei tanti che ha lavorato e lavora nella pancia di quei telegiornali destinati alla rivoluzione del 15 dicembre.
Per cominciare diciamolo ancora una volta così non ci sbagliamo, quei tg generalisti che nacquero da un perverso ma definibile legame con la politica, col compito cioè di presidiare le aree di influenza prima dei grandi partiti, poi degli agglomerati pro e anti Berlusconi, oggi, escludendo le enclave di resistenza più realiste del re, di fatto non ci sono più. Ora ci sono telegiornali più o meno deferenti con il governo, più o meno sensibili a questo o quell’aspetto del racconto sociale ma sostanzialmente uguali, nei formati, nella scansione, nella gerarchia delle notizie. Impegnati semmai in una competizione interna su chi arriva primo o su cosa può fare più ascolto.
Questo rende legittima ogni idea di cambiamento, a cominciare anche dalla semplice razionalizzazione delle risorse ma avendo chiaro il modello che si ha intenzione di costruire. Perché la sfida non è solo quella di eliminare doppioni e sprechi ma soprattutto quella di utilizzare al meglio persone che sulla carta hanno tutto per competere con i grandi networks internazionali.
Un esempio, per farla breve. Sono stato due settimane a Gaza tra luglio e agosto. La squadra della Rai era forte e numerosa. C’erano tutti i telegiornali, più Rainews e la radio (ma qui ora parliamo di tv). Giornalisti con i quali ho lavorato fianco a fianco, ho discusso e che ho osservato. Ho trovato in loro straordinarie sfumature editoriali, nei ragionamenti e nelle inclinazioni, eppure tutti (noi) allo scoccare delle rispettive edizioni, dovevano correre a coprire i fatti del giorno, la disperante sequenza di razzi e bombe che non lasciava troppo spazio ad altro. Tutti, con Rainews inchiodata ai collegamenti, costretti a farlo nel formato più o meno classico del tg generalista, un pezzo tra i 90 e i 120 secondi, che mescola la cronaca di giornata con briciole di storie, a testimoniare il fatto che si era là per davvero. Ora, a parte noti problemi “tecnologici” ancora irrisolti -più volte, per più giorni si è montato spingendosi uno dopo l’altro nella saletta dell’Ap, quando si capirà che affrontare la questione contrattuale del giornalismo multitasking è premessa decisiva ad ogni discorso?- il risultato era paradossale, pezzi tutti uguali per struttura, dove però si intuiva la possibile differenza, il potenziale editoriale di ciascuno dei giornalisti che lo aveva scritto.
E qui sta il primo bivio da affrontare, caro Direttore generale e caro Sindacato: che si fa, si prende la strada facile di ridurre i costi e mandare un solo giornalista per tutti (attenzione al modello della radio che troppo spesso si riduce a questo)? Oppure si decide di alzare l’asticella e dire: i giornalisti che erano lì, anziché competere sulla stessa cosa fanno squadra e moltiplicano l’offerta? Per esempio Lucia offre collegamenti, Riccardo si mette alla caccia di una grande intervista con Hamas, Marco prepara il servizio che racconta la giornata, Angelo si dedica alle storie. Per una settimana, poi magari si cambia ruolo e soprattutto dopo due settimane arriva un’altra squadra formata da altri professionisti.
Questa seconda è la strada standard di ogni grande network che offre una gamma di prodotti diversi, razionalizzando costi e offrendo qualità.
Ma qui sta il punto. Chi decide cosa. Chi prende cosa. Perché solo chiarendo questo passaggio si può ipotizzare un’offerta più ampia e diversificata senza che nessuno si senta fregato.
Ora, anche immaginando un giorno la grande testata Rai Informazione, il punto è lavorare già oggi perché i singoli telegiornali costruiscano una identità editoriale definita e diversa tra loro, che non è, mi consenta caro Direttore generale, mantenere brand, scenografie e conduttori, ma fare scelte di formato e di narrazione sulle quali poco o nulla finora è stato ancora detto. E non bastano più, caro Sindacato, solo le nobili parole servizio pubblico, completezza, pluralismo per garantire che i tg trovino la forza di diventare diversi senza sentirsi menomati.
Bisogna finalmente fare scelte dichiarate. Decidere per esempio che il Tg1 presidi l’informazione dedicata ad un pubblico (ancora maggioritario) che sceglie sostanzialmente di guardare solo la tv per aggiornarsi, dunque il racconto dovrà essere sintetico, rigoroso e il più possibile onnicomprensivo. Il Tg3 invece accolga in pieno la sua vocazione all’analisi politica e geopolitica e dunque si specializzi anche nella discussione con esperti e con grandi interviste. Il Tg2 raccolga definitivamente la sua tradizione all’approfondimento e la declini nel più contemporaneo story telling, grandi storie e giornalismo narrativo ben scritto e ben girato.
Può essere così o in un altro modo ma si discuta di questo, solo così si potrà intraprendere la strada della grande offerta di informazione e della sua trasformazione senza la paura e il rischio che sia invece un inganno organizzativo e finanziario. Solo così i singoli telegiornali potranno prendere dalla squadra di Gaza sia i collegamenti che le grandi interviste, sia i pezzi di giornata che le storie senza sentirsi sminuiti ma anzi usando al meglio quello che è più coerente alla propria identità editoriale.
So bene quanto può essere difficile per le classi dirigenti degli attuali telegiornali ripensarsi come parti di un mosaico informativo piuttosto che come singoli quadri d’autore da mettere in competizione ma questa è la sfida. Chi prima arriverà a definirsi editorialmente vincerà la partita della nuova riconoscibilità col pubblico e anche con l’azienda.
Ci sarebbe poi da discutere di Rainews e del ruolo delle sedi regionali, che dovrebbero essere impalcatura della nuova struttura informativa della Rai, del mondo di internet che ci affascina e ci atterrisce, ma questa è un’altra lunga storia e ho già scritto troppo.
La mia lettera si ferma qui, prendetela per quello che è, tanto siamo ad agosto.