di Lazzaro Pappagallo
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15 dicembre: Così il direttore generale ha fissato il suo chiodo, il suo paletto. 15 dicembre si intitola il piano di ristrutturazione dell’informazione Rai, quella che nell’immaginario collettivo coincide con tg1, tg2 e tg3. Una perfetta congiunzione tra immaginario e indicazione di marcia del direttore generale. Gubitosi fissa lì la fotografia di cosa bisogna cambiare.
Nel 1979 la Rai era appena passata al colore. Le immagini dall’Argentina squagliavano l’arancione dell’Olanda. Le linee dei nuovi apparecchi faticavano a tenerle dentro. Si chiudevano i Settanta in casa Rai. Decennio attraversato da sofferenze e da lacerazioni pesantissime – su tutto il terrorismo rosso e nero – ma anche da aperture della società, da slanci di libertà. I Settanta avevano cambiato in profondità la Rai. Il monopolio era stato incrinato dalle radio private, dalle tv private, dalla sentenza della corte costituzionale del 1975. Aveva affrontato l’apertura nello spirito di un tg2 non posizionato su dinamiche democristiane e governative, una transizione che l’avrebbe portato al socialismo craxiano. Stava per nascere Rai Tre.
Quella dirigenza poteva decidere di aprire il terzo canale, replicando le dinamiche degli altri due canali e telegiornali. Scelse una terza strada. Assegnò a quel canale una duplice rappresentazione: doveva parlare alla parte di paese largamente minoritaria che non trovava cittadinanza nel pentapartito; doveva aprirsi al territorio, al racconto delle vite di 60 milioni di cittadini. Lo doveva fare con le sedi regionali, nate non solo per produrre informazioni ma anche per creare palinsesto e radicarlo lì dove c’era un’esigenza reale. Una forma, se volete, di protofederalismo prima che diventasse merce comune nel sillabario collettivo. Quella sfida fu vinta da quella dirigenza. Ci fu l’apertura a sinistra, si iniziò il racconto del territorio anche se ridotto nelle finestre dei telegiornali. Una parte del paese fu recuperata all’identità aziendale.
I colori di quella fotografia si sono smarriti nel corso del tempo. Prima che Gubitosi ne decreti la morte, la tripartizione era finita nei fatti. Il ventennio berlusconiano ha ridotto la tripartizione a un bipolarismo a panino. Un sandwich, un cheeseburger che, nel lungo periodo, ha fatto del male alla Rai, al suo ruolo culturale nel Paese.
Gli effetti sul breve li conosciamo tutti: occupazione politica, nomine dettate da Montecitorio e da Palazzo Chigi, editti bulgari. Gli effetti di lungo periodo sono invece lì quotidianamente ancora a farci compagnia. E’ il caso della legge Gasparri su cui si fonda l’attuale sistema italiano delle comunicazioni radiotelevisive ma è anche il caso, meno di sistema e più concreto e più quotidiano, di cosa la nostra azienda produce per i suoi cittadini, per gli abbonati.
L’informazione è come una macchina che ha introiettato un dna in automatico. Il guidatore affronta la duplice corsia e non vede le intersezioni, non vede il traffico che arriva, non vede le altre macchine che ci salutano e che non sono necessariamente ostili. Settato il meccanismo mentale, tutto ne è una conseguenza. Cerco di essere più chiaro. Il modello tripartitico o bipolare consentiva una lettura standard della realtà. La macchina procedeva sicura su quei binari.
Ha però dimenticato che la società spingeva, produceva, ci affiancava e chiedeva altro da noi. Lo possiamo vedere da un punto di vista tecnico. La Rai è stato l’ultimo servizio pubblico europeo a digitalizzarsi, a lasciare l’analogico (il 45 giri grosso modo) per passare al digitale con le immagini (il nostro cd, per l’mp4 aspettiamo una presenza social degna di questo nome). Il treno lanciato su quel binario correva con le sue logiche imperturbabili sempre allo stesso modo. Cosa importava a un direttore lo scroscio di immagini, la saletta di montaggio inaffidabile, il beta incastrato nella telecamera se il suo rapporto con la politica (con la minuscola) era saldo e inaffondabile?
Certo c’erano i cittadini….Ma non è solo una questione di forma, ce n’è una, molto più stringente, di sostanza. Con una brava collega di una redazione culturale ci lamentavamo di come ci fosse spazio non sufficiente sui tg per il rock nazionale e internazionale. Ok va bene, viviamo i nostri mid40s. La nostra è generazione cresciuta a pane e Springsteen o pane e Vasco Rossi. Ma nel momento in cui lo dicevo mi accorgevo che ci sono intere lost generations, quelle dei ventenni e dei trentenni, il cui rock si chiama hip hop, rap. E noi non l’abbiamo raccontato o, se lo abbiamo fatto, è accaduto quando è diventato mainstream, quando magari si è affacciato al Festival di Sanremo o per un tatuaggio in più. E così entravano veicoli in quella nostra autostrada, ci facevano segno di saluto ma noi non rispondevamo.
E arriviamo alla riforma. Se questo è lo scenario non possiamo che sfidare azienda e politica a cambiare profondamente la Rai e l’informazione prodotta dalla Rai. Se però questo è lo scenario non possiamo solo ridurla a una questione di taglio delle rubriche dai giornali generalisti o dei tg brevi. E’ sacrosanto farlo, soprattutto se non colgono gli ascolti necessari, ma da una parte non si può ridurre tutto a una sfida Gubitosi vs. Tg1 Economia o Tg2 Salute e dall’altra invece bisogna riportare al centro del dibattito e del progetto il prodotto.
Il Dg affida la sua riforma al cappello BBC, un tessuto inglese dalla stoffa indistruttibile, e a una riforma tutta interna, quella del Giornale Radio. Anche quella, oggi, sembra una riforma sacrosanta. E lo è nella struttura. Ma mi chiedo: il prodotto generato è stato all’altezza delle aspettative? Ancora ieri sul canale all news si faceva fatica a capire quale fosse il ruolo di Pupo. E ancora oggi non si capisce cosa siano il Gr2 e il Gr3. Il Gr2 doveva parlare ai giovani. Lo fa? Il Gr3 doveva essere un giornale di approfondimento con un taglio culturale. Lo fa?
Se allora è quella la bussola dobbiamo guardare bene quell’esperienza per salvare il buono che c’era e c’è ma anche non replicare i problemi che ha creato e che crea in un prodotto non all’altezza delle missioni editoriali.
Ancora i newsroom 1 e 2. Se non si chiarisce il senso delle missioni non si capisce perché il Tg3 finisca nella 2 e il Tg2 nella 1. E anche il perimetro della 2 non può non tener conto del posizionamento di quello che dovrebbe essere il perno, Rainews, il canale 48. Un canale troppo distante dalle abitudini di telecomando. Come mai la diretta del recupero della concordia ha fatto il 17% di ascolto, così distribuito: 5% sul 48 e il resto, 12%, su Rai Due?
Dunque una buona riforma non può non tener conto di elementi di marketing, di posizionamento nell’etere e da lì costruire. Non può non tener conto di un’informazione regionale che, a volte, nonostante la buona volontà di buona parte dei colleghi, è vittima di pigrizie e accomodamenti vari. Non può non mettere in discussione la separazione annosa tra reti e testate, tra giornalismo di testata, contrattualizzato, e giornalismo di rete, non ancora completamente contrattualizzato. Non può non mettere in discussione la qualità dell’approfondimento.
Se i tg non possono raccontare la stessa politica cinque volte, più o meno allo stesso modo, nell’arco di due ore mezzo in prime time serale per la fine del modello 15 dicembre, è anche vero che i nuovi tg generalisti devono approfondire. Ma su quali linee editoriali, su quali settori? Su quale scansione temporale? Mezza giornata, una giornata, una settimana, un mese, un anno? Su questo arco temporale misuro la differenza tra uno Speciale Tg1 e la Gabanelli? In teoria fanno (facciamo) lo stesso mestiere.
Se riforma deve essere, questa non può costruire l’identikit di un’azienda fotografando il 2014 o il 2015. Deve consentirmi di arrivare a 1- 15 anni. La media company è solo uno slogan se la parte social, web dell’azienda non diventa un core business e non un’appendice più o meno tollerata. Lì c’è spazio per le sperimentazioni, per le nuove figure professionali, per non rendere pletorici i corpi redazionali (altro vallo di Adriano da non superare).
Su tutto questo deve avvenire il confronto con l’azienda e con il Paese. Se non vogliamo fare una riformina, dobbiamo ascoltare cosa chiede il Paese, cosa chiedono i cittadini, cosa chiedono gli abbonati. E dobbiamo chiedere alla politica di alzare le mani, di non occuparsi più di Rai. Se la politica si farà da parte, tutto il nostro futuro resta nelle nostre mani. Se siamo bravi, ci salveremo. Se no, apparterremo ad un passato glorioso.
Ma il sindacato ci deve essere? Chiamo in soccorso Max Weber. E’ sua la distinzione tra etica dei principi ed etica della responsabilità. Nel primo caso si aderisce a un principio fino in fondo, fino alle estreme conseguenze. Nel secondo caso quel principio lo porto nell’agorà, nel riflesso sulla vita di ciascuno di noi.
Non vi dico da che parte sto.