di Santo Della Volpe
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Nel silenzio assordante di questa strana estate, a fine luglio, la Rai ha perso un altro pezzo di sé: perché il pensionamento di persone come Giorgio Balzoni, Sara Scalia, Gianni Rossi, Rossana Ciani e di Teresa Marchesi, al di là delle motivazioni personali di questi ed altri colleghi ora in pensione, rivela una attitudine dell’azienda RAI a perdere pezzi di memoria, dopo aver formato per 25-27 anni i giornalisti che hanno dato lustro alla nostra Azienda.
Particolarmente grave l’addio di Teresa Marchesi perché si unisce al pensionamento, più o meno obbligato di Gianni Gaspari dal Tg2. In un colpo solo la RAI ha perso due terzi delle proprie firme di critica cinematografica, e di cultura che nei TG generalisti avevano contraddistinto la diversità dei commenti, delle interviste, delle valorizzazioni del nostro Cinema. In modo diverso e per pubblici diversi: ma il vero problema è che nessuno nelle testate giornalistiche ha pensato a creare una continuità, un percorso che desse ai commenti, tanto più in Cultura, la continuità di uno stile proprio e particolare. Nessuno ha voluto creare le condizioni della “staffetta”; e d’altra parte, soprattutto nelle testate giornalistiche, la tendenza negli ultimi anni è stata quella di eliminare le firme, tagliare gli “acuti”, appiattire i servizi, soprattutto degli inviati, costruire a tavolino i “pezzi” da mandare in onda, omogeneizzando tutta l’informazione in una sorta di uniforme modo di vedere l’Italia ed il mondo.
Così, eliminando le diversità, si è eliminata la cultura della curiosità, della ricerca delle notizia “che abbiamo solo noi”, dell’inviato che va sul posto del fatto per vedere e costruire con il proprio stile il racconto e la costruzione della comprensione del fatto.
Quale giovamento ha avuto il pubblico televisivo da questo appiattimento generalizzato? Nessuno, anzi, soprattutto i più giovani,ma anche i più affezionati ad uno stile ed ad una diversità storica dei Tg, si sono allontanati.
Abbiamo perso ascolto perché tutti i Tg RAI (ed anche della concorrenza) sono praticamente uguali: e perché, al di là di quelli più “tradizionali”, è mancata la diversità dei Tg tradizionalmente diversi.
Così, alla vigilia di un cambiamento della RAI che deve esserci e dovrà arrivare perché l’assetto costruito dalla legge del 1975 è ormai sorpassato, l’informazione delle testate RAI si presenta con un solo grande patrimonio sottoutilizzato e male considerato, fatto di lunghi anni di lavoro e di creatività: la fedeltà di un pubblico che significa anche ascolti vincenti e pubblicità per l’azienda.
Ma sino a quando regge questo patrimonio acquisito negli anni, senza che venga visto come il vecchio che ci si deve lasciare alle spalle? E’ incredibile la confusione di metodo e di stile che in Rai si sta facendo oggi tra Memoria, rapporto con il pubblico e “vintage”, quell’insieme di macchiette e di vecchi spezzoni Tv che viene nostalgicamente proposto come riempitivo del dopo TG sulle prima rete Tv. Come se ripescare dalle Teche e mettere in onda quelle Gag di vecchia Tv esaurisse il patrimonio di memoria tramandata. E, soprattutto, come se la credibilità dell’intrattenimento e a maggior ragione dell’informazione, passasse attraverso la nostalgia del passato, invece che in una costante riproduzione di novità e di stile di interpretazione del mondo.
Ancor più stupisce che nessuno nella Dirigenza della Rai, abbia pensato a porre le basi del futuro partendo da quel che siamo e siamo stati, nell’informazione soprattutto, in questi lunghi anni di rapporto con il pubblico: nel piano proposto dall’azienda per la riforma dell’informazione, sembra di capire che l’unico elemento di considerazione delle “fidelizzazione” del pubblico consista nel lasciare orari, sigle e conduttori degli attuali TG, cambiando solo l’organizzazione alle spalle della messa in onda. Come se invece la vera fucina e costruzione del rapporto con il pubblico, della costruzione della diversità e curiosità delle testate Rai non stesse invece nella ”bottega” quotidiana che fabbrica la scelta delle notizie, invia i giornalisti in ogni parte del mondo, sceglie le notizie di interesse maggiore per il pubblico.
Purtroppo sembra di capire che la ragione di quell’intangibilità di sigle e orari sia puramente economica, agganciata alla fedeltà del pubblico del i TG Rai per orari e abitudini; in poche parole, anche in questo caso, si è partiti dall’economia (per carità, importante), invece che dal prodotto.
Qui allora bisogna fermarsi a riflettere, prima di muoverci: a mio avviso il tempo è poco ed i valori da preservare sono molti,per una vera riforma dell’informazione RAI che guardi al futuro nell’epoca digitale. Ma i punti di partenza sono sempre gli stessi, perché stiamo parlando di RAI, di Cultura, non di una azienda qualsiasi.
Quando fu varata la riforma della RAI, nel 1975, io ho cominciato a scrivere le mie prime brevi da 6 righe, magari rifacendole un po’ di volte prima di imparare a mettere la notizia in testa. Ma da allora in poi, tra il “mestiere” di cronista e l’impegno di inviato di guerra, tra il dirigente sindacale e il capo redattore, la nostra generazione di giornalisti RAI ha avuto come punti di riferimento due snodi essenziali, dirimenti, quasi due idee fisse quotidiane.
Il primo punto di riferimento è sempre stato la RAI come Servizio Pubblico: un qualcosa in più rispetto agli altri colleghi, una responsabilità maggiore nella ricerca della verità, dell’esclusiva, della notizia. Per noi, per la generazione che è nata negli anni della riforma e che si è battuta sempre contra la lottizzazione e l’oppressione politica dentro l’Azienda, quel ruolo di Servizio Pubblico era un fonte di libertà di espressione, una forma di liberazione da perseguire ogni giorno per tenere la schiena dritta e trovare quotidianamente il rapporto con il pubblico, dicendo le cose come stavano, rompendo la palude e l’informazione paludata. Ci sono stati anche momenti di esaltazione (talvolta persino eccessiva …) quando nell’epoca della Guerra del Golfo o di Mani Pulite o, ancor di più, nella primavera siciliana dopo l’epoca delle stragi di mafia del ’92, la RAI è stata (noi del TG3, con orgoglio…) il punto di riferimento di chi voleva vedere affermarsi la pulizia morale, l’etica nella politica, la Pace contro le guerre, la battaglia contro cosa nostra , ‘ndrangheta e camorra. Il servizio pubblico, inteso come il TG che dava tutte le notizie, anche quelle scomode al potere. Ma che intratteneva facendo divertire e ridere, la RAI che metteva insieme la voglia di giustizia e di benessere di una nazione.
Quella riforma del 1975 ha permesso tutto questo. L’attuale riforma che si deve necessariamente scrivere ed attuare in RAI , DEVE riproporre di nuovo questo ruolo del Servizio Pubblico Radiotelevisivo. Cioè dare al pubblico, insieme alle possibilità di interpretare i fatti, la maggior scelta possibile di notizie ,ma quelle vere, riprendendo in mano l’etica della scelta, contro le bufale, le macchine del fango e notizie insufflate ad arte dalle centrali della disinformazione ecc.. L’epoca berlusconiana ha appannato in parte questo concetto; la mercificazione della Tv, le martellate date alla diversità del Servizio Pubblico rispetto alle tv commerciali, hanno fatto perdere molto terreno a questo concetto invece basilare (che per altro è stato talvolta interpretato male anche da alcuni di noi…); tanto più nell’ultimo periodo, contrassegnato da crisi economiche e tagli che, nei progetti e nelle realizzazioni pratiche di tutti i giorni ha occupato i pensieri della dirigenza aziendale, più della qualità del Servizio Pubblico.
Ma un fatto è certo: se veramente si vuole affermare il Servizio Pubblico RAI nell’epoca del digitale, bisogna liberarsi della intrusione della politica e di altri poteri forti nella scelta di dirigenti e direttori di Tg e Reti, scegliendo i nuovi dirigenti e direttori tra chi ha chiaro il concetto di giornalista con la schiena dritta e di “culture” del ruolo di Servizio Pubblico televisivo. La Riforma della RAI non può che partire dalla riforma della “governance” della Rai e, a questo punto, dell’intero sistema radiotelevisivo italiano. Senza questo, ogni riforma ,anche solo organizzativa del lavoro in Rai, rischia di essere non solo monca, ma inutile.
L’altro punto fermo della Rai, ovviamente per chi in Rai fa televisione, per tutti questi anni è stato quello che abbiamo per anni chiamato lo Specifico Televisivo. Oggi si usa poco questo termine, che ha però una chiara origine nel mezzo televisivo, quello che fa la differenza tra un giornalista televisivo, RAI, ed un giornalista che usa altri mezzi, dalla radio al computer. Le immagini, il loro ruolo, la loro qualità. Proprio in questi giorni Rai Storia ha mandato in onda un filmato d’epoca ( ma neanche tanto, parliamo dell’inizio delle trasmissioni RAI e dei primi telegiornali con servizi chiusi) sulla Ferrania, nel quale si vede che la ditta produttrice, all’epoca, di pellicole, chiamava i telecineoperatori della RAI a testare i nuovi prodotti. Dalla pellicola al digitale, lo Specifico Televisivo resta sempre lo stesso: LA qualità delle immagini, testimoniare con nitidezza, precisione, anche con poesia (nel caso lo si debba fare), i fatti che accadono nel mondo, sempre meglio, sempre di più. Nell’epoca in cui tutti filmano con i telefonini o i tablet, ancor di più diventa importante il ruolo dell’immagine nitida e chiara, con il taglio giusto per far capire i problemi che si vogliono documentare.
Ce lo ha ricordato, con il suo sacrificio, Simone Camilli, pochi giorni fa. Le immagini sono documento, sono giornalismo, ma specifico televisivo significa uso giusto e corretto di quelle immagini, per capire e far capire. Non basta far vedere, ed è questo l’orgoglioso insegnamento di Camilli: bisogna far vedere per far capire, unendo l’uso delle immagini al giusto commento, facendo in modo che l’ascoltatore capisca e faccia proprio quel messaggio che vede passare in Tv.
Per questo la crew, cioè il gruppo che si crea tra giornalista, telecineoperatore e montatore è fondamentale, è una risorsa da mantenere quando si tratta di affrontare temi importanti (ad esempio le guerre), ma anche il costume e la società. Tenendo conto che anche i giornalisti, che da sempre hanno un compito particolare nella scelta ed uso delle immagini, possono e devono contribuire con il nuovo sistema operativo digitale, ala preselezione delle immagini per i servizi. Ma resta fondamentale il concetto: facciamo televisione e quindi le immagini sono sempre da valorizzare.
Basta con servizi tv dove gli effetti coprono la voce dei giornalisti! Basta con l’uso indiscriminato di immagini girate da volenterosi cittadini con i telefonini, che sono utili se, ad esempio, colgono il momento della bomba d’acqua a Refrontolo, ma che non possono sostituire le immagini girate professionalmente per far capire ,poi, come e perché quella bomba d’acqua ha potuto provocare quella tragedia.
Entrambi i concetti, Servizio Pubblico e Specifico Televisivo, fanno infine parte di un’unica base di partenza per qualsiasi riforma della RAI, insieme allo Specifico Radiofonico, ai nuovi sistemi di comunicazione via Internet: il prodotto, la qualità di ciò che esprimiamo e mandiamo in onda, la qualità dei giornalisti e dei dirigenti giornalistici, la loro scelta esclusivamente su base professionale, la scuola di giornalismo che ogni giorno facciamo, tutti insieme, vecchi e giovani giornalisti per affermare l’informazione di qualità, quella che dà sempre tutte le notizie vere e non censura nulla, tagliano però le notizie non vere, speciose o utilizzate ad arte per andare contro la verità.
Poi la organizzazione e riorganizzazione delle Newsroom si possono e si devono discutere. Ma sempre tenendo conto del punto d’arrivo: fare giornalismo da servizio pubblico per chi ci ascolta, per chi ci legge su Internet, per chi ci vede. Che poi è un punto d’arrivo e, di nuovo, un punto di partenza.