di Grazia Leone
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Per qualche riflessione sulla riforma della RAI, al centro del dibattito aziendale e sindacale, prendo spunto da alcuni episodi.
Primo. In ferie – nel corso di ben venti giorni – non accendo mai il televisore, che pure è a disposizione, nemmeno per un rapido sguardo ai “nostri” tg. Attingo, invece, informazioni soltanto da altri media. Capita per la prima volta in un periodo così lungo. A me che non sono una “nativa digitale”. A me (la cosa si fa preoccupante) che lavoro in un telegiornale.
Secondo. Conoscenti e amici mi fanno presente sempre più spesso – con tono rassicurante, ma anche deluso e infastidito – che loro sì, il canone lo pagano, ma la RAI – in qualità di servizio pubblico radiotelevisivo – dovrebbe davvero fare “di tutto, di più” per informare e per intrattenere.
Terzo. Un viaggio mi dà modo di osservare come i giornali offerti in treno siano ormai rifiutati dai passeggeri, quasi tutti alle prese con tablet e smartphone che però, a guardar bene, incorniciano raramente le pagine web della RAI.
Non crossmediale. Scollato completamente dalla realtà.
È il modo in cui si continua a fare informazione nella tv pubblica. Di questo passo la RAI, che invece – come principale azienda culturale del Paese – dovrebbe fare da apripista, è destinata a morire. Altro che tagliare i rami secchi. È tutto l’albero che sta per marcire.
La scelta è obbligata, dunque. Bisogna cambiare, prima che sia ancora più tardi. Sì, ma come?
Il direttore generale della RAI Gubitosi ha recentemente comunicato il suo piano per il riassetto dell’informazione televisiva. Il piano – ispirato alla struttura della BBC, la tv pubblica del Regno Unito – punta alla realizzazione finale di un’unica newsroom, cioè di un centro di produzione che fornisca servizi per i tutti i canali e per il web. Questo – attraverso una fase intermedia – basata su due newsroom.
Certo, la fulgida realtà della BBC è un ottimo modello. Gubitosi, però, non fa cenno a un’eventuale modifica della Governance della RAI. Eppure qualsiasi riforma sarebbe credibile ed efficace soltanto se – proprio come succede nella BBC – la nomina dei dirigenti aziendali fosse regolata esclusivamente su criteri di merito e non di appartenenza partitica.
Il discorso, in realtà, è molto più complesso. Non è da sottovalutare, infatti, la diversa forma mentis di anglosassoni e italiani. Per intenderci, nel Paese della regina le regole sulla Governance della BBC non impedirebbero all’esecutivo di influenzare gli indirizzi della tv pubblica. Ad evitare questa ingerenza, però, contribuisce soprattutto la “cultura” di quel popolo, agli antipodi rispetto a quella imperante in Italia. Cambiare la Governance della RAI, quindi, è una condizione necessaria, ma non sufficiente.
Si può aggiungere, allora, che prendere la giusta distanza dalla politica significa anche strutturare in modo trasparente e meritocratico il lavoro e la crescita professionale all’interno delle nostre redazioni. Trovo scandaloso e indecente, ad esempio, che a seguire giornalisticamente un partito (e ovviamente a far carriera) siano colleghi legati in qualche modo ad alti esponenti di quella formazione politica. Nella BBC e nella tv di qualunque Paese normale questo non succede. La credibilità e la qualità dell’informazione hanno a che fare anche con tutto ciò.
Senza un reale cambio di passo, insomma, senza una sostanziale indipendenza della RAI dalla politica, qualsiasi riforma – seppur urgente e necessaria – sarebbe inutile, anzi persino rischiosa, soprattutto se prevedesse di concentrare il potere in una o al massimo due strutture (chiamale, se vuoi, newsroom).
Dire no all’ingerenza della politica significa anche scongiurare la vendita – sia pur parziale – di RaiWay, battendosi con tutte le forze come dipendenti, come sindacati (il plurale non è un refuso), come cittadini. RaiWay è la società che trasmette il segnale della televisione pubblica. Un asset strategico anche per la sicurezza nazionale, visto che i suoi tralicci sono utilizzati – tra gli altri – da forze dell’ordine, servizi segreti, Croce Rossa. Senza contare, poi, che una cessione di quegli impianti rischia di avvantaggiare la concorrenza.
Per fare cassa – piuttosto che cedere quote di RaiWay – l’azienda elimini gli sprechi e riduca notevolmente il ricorso ad appalti e a professionisti esterni.
Altro discorso complesso riguarda la missione dell’informazione RAI e l’organizzazione delle testate giornalistiche.
Il piano del direttore generale prevede una razionalizzazione delle risorse. Da qui la preoccupazione per eventuali tagli all’organico.
Gli attuali tg – al netto di alcuni servizi – piacciono sempre meno al pubblico. E sono abbastanza appiattiti, nonostante lo sbandierato pluralismo. In effetti, il novanta per cento delle notizie trasmesse dai telegiornali della RAI (a onor del vero, anche da quelli di altre emittenti) prende spunto dalle agenzie di stampa e dai siti on line dei principali quotidiani. Persino la gerarchia dei temi dipende dalla home page degli altri. Allo stesso tempo, i pochi spazi di approfondimento si vanno assottigliando, relegati in orari scomodi o su canali poco valorizzati.
Una riforma sarà degna di sostegno soltanto se imprimerà una significativa svolta a questo fronte dolente. Soltanto se il necessario (e mai valorizzato a sufficienza) lavoro di desk, fondamentale anche nella sempre lodata BBC, farà da base ad una cospicua compagine di inviati in giro per l’Italia e per il mondo e di giornalisti legati al territorio. Tutti dediti a scovare le notizie che magari altri media rilanceranno successivamente, ad approfondire i fatti, a scoprire gli intrecci tra malaffare ed economia, a fare il cane da guardia del potere politico senza andarci, come nella maggior parte dei casi è stato finora, a braccetto.
E una riforma seria dovrà rimodulare in modo più efficiente l’informazione di flusso sul canale “all news”, favorendo la collaborazione con le preziose risorse delle sedi regionali; dovrà rendere centrali la presenza delle notizie sul web e l’interazione con i social network; dovrà abbattere gli steccati tra il giornalismo svolto nelle testate e nelle reti; dovrà – non ultimo – riportare all’interno dell’azienda la produzione delle immagini, limitando così, soltanto a casi eccezionali, l’utilizzo delle riprese fatte da chiunque col proprio cellulare.
Così facendo, altro che tagli. Ci sarà bisogno, piuttosto, di un gran numero di giornalisti. E si darà finalmente identità, dignità e credibilità all’informazione del servizio pubblico e a tutta la RAI.
Obiettivo indispensabile, insomma, è rendere centrale l’informazione, usando più linguaggi e garantendo l’esistenza di vari punti di vista, dando una diversa “mission” editoriale ai singoli tg, sfruttando – secondo le rispettive peculiarità – le varie piattaforme e avviando una significativa interazione con gli utenti. A questo proposito, per intercettare la crescente tendenza dei telespettatori a costruirsi un palinsesto sempre più personalizzato, sarebbe bene implementare – in RAI – ciò che da tempo è fruibile sulle reti della concorrenza. Il pensiero va sia alla tv “on demand”, che consente di visionare ciò che si vuole quando si desidera, sia alla possibilità di scegliere tramite il telecomando fra più alternative su uno stesso canale. Inoltre, realizzando apposite “app”, si potrebbero intercettare più tipi di pubblico – tra cui quello più anziano – offrendo, ad esempio, informazioni di servizio.
Una sfida complessa quella del vero cambiamento. Che sarà vincente soltanto se sarà basata su un confronto serio – e all’occorrenza serrato – tra azienda e lavoratori, senza trascurare le istanze dei cittadini, dei telespettatori.
Per una RAI che realizzi davvero un nuovo Servizio. Per un nuovo Pubblico.