di Nico Piro*
Un anno fa il 25 agosto del 2017, le agenzie cominciavano a rilanciare il nome di una località (Cox’s Bazar) nota fino a quel momento solo a ricchi bengalesi, agli appassionati di record di lunghezza delle spiagge, ai cultori della storia coloniale britannica.
In quell’area del Bangladesh meridionale cominciavano ad arrivare decine di migliaia di profughi Rohingya mentre all’orizzonte – oltre confine, in Myanmar – si stagliavano dritte colonne di fumo, ultimo segno di vita delle loro case e dei loro villaggi.
Ci vorrà del tempo per capire che – sarà poi un dato provato con certezza – che la minoranza mussulmana del Myanmar, i Rohingya privi di cittadinanza e considerati immigrati clandestini anche se vivono nel Paese da generazioni, erano stati vittima di un genocidio, una pulizia etnica condotta da buddisti e dall’esercito.
E’ curioso notare come tale odio nasca si da diversi fattori, ma sia alimentato da una cosa in particolare: il “rumor” per cui i mussulmani stanno diventano maggioranza nel Paese a discapito dei “padroni di casa”, i buddisti (dato assolutamente falso).
Nel giro di poche settimane, 300mila persone varcheranno la frontiera, due mesi dopo il numero complessivo salirà a oltre 600mila, continuando poi a crescere in maniera molto più lenta almeno fino alla fine dell’anno.
Considerando i profughi delle precedenti fughe dei Rohingya, in quella parte di Bangladesh ci sono quasi un milione di rifugiati.
Il Bangladesh dell’accoglierli ne ha fatto un punto d’onore – forte anche della comune fede islamica . pur tenendoli in una “bolla” nell’attesa di un improbabile rimpatrio.
Nelle stesse settimane, per esempio, in Italia ma anche negli Stati Uniti, Germania o Francia, la politica faceva cassa sull’allarme immigrazione, sull’emergenza sbarchi, sull’invasione per un numero infinitamente inferiore di migranti in arrivo.
Sono stato in Bangladesh in autunno e ho potuto testimoniare e raccontare una crisi dalle proporzioni enormi, campi profughi grandi come capoluoghi di regione italiani ma senza strade, bagni, acqua potabile dove portare a “casa” un sacco di 10kg di riso – la razione settimanale per le famiglie – può significare camminare per due ore tra colline e dirupi.
Colline scarnificate perchè all’arrivo, ognuno si è costruito un riparo con gli arbusti che un tempo facevano verde il paesaggio.
Dopo un’oltraggiosa buffonata – l’accordo di finto rimpatrio dei profughi in Myanmar – la crisi ha seguito il corso di un destino scritto dall’inizio, tutto è rimasto come nei primi giorni – a parte il progressivo arrivo di organizzazioni umanitarie prese in contropiede dalla furia degli arrivi e costrette a “rincorrere” per mesi.
I Rohingya sono ancora tutti lì, come del resto una parte di quelli arrivati nel 1992, con loro c’è anche Abdus, il profugo più anziano che durante la sua vita è fuggito quattro volte – la prima nel 1942 – dalla provincia del Rakhine, dove è sempre tornato perchè quella è casa sua. Sempre, non questa volta.
Quasi un milione di persone vivono in baracche, dove la miscela di traumi e di rabbia cresce. In un Paese sempre più in bilico come il Bangladesh questi campi potrebbero essere il futuro bacino di reclutamento di movimenti dell’estremismo islamico.
A poco aiuta il progetto governativo di spostare una parte (300mila) rifugiati su un’isola dove costruire loro case, tenendoli ancora più isolati. Quell’area è soggetta a frequenti allagamenti e inondazioni, potendo scegliere meglio le colline di Cox’s Bazar – il che è tutto dire.
Negli stessi giorni in cui io mi trovavo in Bangladesh al confine con l’ex-Birmania, due colleghi della Reuters venivano arrestati sulla strada tra la capitale e la provincia del Rakhine, sono ancora in carcere nel silenzio generale.
Lo stesso silenzio a cui la politica internazionale come l’informazione si è rassegnata. Quella dei Rohingya è rapidamente entrata (forse ci è già nata) nella categoria delle “crisi dimenticate”, come un paziente cronico, incurabile. E’ una sconfitta per il nostro lavoro, è una sconfitta per l’umanità, per i valori di cui troppo spesso ci riempiamo la bocca ed è anche una cosa molto poco utile al pubblico italiano a cui mancano spesso strumenti per valutare – oggettivamente – quello che accade a casa nostra.
Addendum personale (non è detto che vi interessi):
Dov’ero il 25 agosto dell’anno scorso? Negli Stati Uniti ad inseguire i fatti di un Paese sempre più spaccato a metà, dove il tema dell’immigrazione clandestina era diventato centrale nella comunicazione di un presidente, alla disperata ricerca di cambiare l’agenda dei media. Trump in quei giorni si trovava nel mezzo della peggior crisi politica del suo mandato (le violenze razziste di Charlottesvile e le sue controverse dichiarazioni) e da abile comunicatore sia con la missione afghana che con temi come il “muro” al confine, è riuscito a tirarsene fuori.
Questa tattica di Trump sposava e rafforzava, legittimandole, scelte analoghe viste in certi settori della politica europea. Era anche l’anticipo di quello che avremmo di lì a poco visto in Italia (non solo con il governo attuale).
L’immigrazione come tema magnetico capace di polarizzare le insicurezze della gente, di dare forma alle paure collettive, di tracciare una linea tra politici forti e quelli deboli, di assolvere i forti da qualsiasi peccato avessero potuto commettere.
Un fenomeno nel quale il rapporto-causa effetto è indivisibile tra media e politica, visto che la crisi dell’informazione tradizionale che (come quella delle politica) porta a puntare sul “popolare” (categoria che ormai coincide con rabbia, paura, stomaco) per superare un calo di vendite che è spesso frutto solo dell’inadeguatezza ad uno scenario editoriale drasticamente cambiato.
* L’articolo è tratto dal blog di Nico Piro.