di Stefania Battistini
Il Capo dello Stato Recep Tayyip Erdoğan lo aveva detto direttamente ai giornalisti: “Per quell’inchiesta, la pagherete cara”. E ieri quella minaccia è diventata realtà: nelle 473 pagine dell’ordinanza firmata dal vice procuratore di Istanbul, Irfan Fidan, a capo della Sezione Crimini Terroristici e Organizzati, emerge chiara la richiesta di ergastolo per Can Dündar ed Erdem Gul, direttore e caporedattore del quotidiano d’opposizione “Cumhuriyet”, autori dell’inchiesta che ha svelato un passaggio di armi dalla Turchia alla Siria su convogli scortati dai servizi segreti turchi. Armi pesanti nascoste sotto i cartoni di medicine riprese e fotografate dai due giornalisti.
“Spie”, li aveva appellati così il Capo dello Stato. Dalle sue lettere dal carcere di Silivri, Can Dündar non ha mancato di sottolineare come Erdoğan non avesse smentito i contenuti dell’inchiesta, accusando piuttosto gli autori di rivelare segreti di Stato. L’accusa di spionaggio – immediatamente recepita dalla magistratura – pesa moltissimo. Tanto più ora che il fascicolo è stato unito al processo già in corso contro quella che sia Erdoğan che la Procura definiscono un’organizzazione terroristica infiltrata dentro i meccanismi dello Stato, capeggiata – secondo la Procura – da Fethullah Gulen, ex alleato del Capo dello Stato, ora in auto-esilio negli Stati Uniti, ma sempre guida del movimento Hizmet, considerato una delle principali minacce al dominio dell’AKP, il partito di Erdoğan. È proprio il Presidente il primo a dirsi convinto che esiste uno ‘Stato parallelo’ – definito dal governo e dai media allineati ‘Organizzazione terroristica dei Fethullahisti’ (FeTO) – dietro le due maxi-operazioni contro la corruzione che due anni fa ha visto coinvolti imprenditori, ministri, parlamentari e lo stesso Presidente. In quel dicembre 2013, sebbene il parlamento non avesse mai autorizzato il processo, quattro ministri si sono dimessi. Ma poi queste inchieste – che hanno messo in seria difficoltà l’AKP – sono state fermate dalla magistratura stessa, i poliziotti e i giudici che le avevano aperte sono stati licenziati e processati, le indagini ritenute un tentativo di golpe.
Prove dell’esistenza di questa organizzazione, di questo cosiddetto ‘Stato Parallelo’, non ce ne sono, eppure molti giornalisti, intellettuali e dirigenti di polizia sono stati accusati di farne parte, tanto che la stampa d’opposizione considera quest’accusa un mezzo per eliminare chi si mette contro il governo e il Capo dello Stato. Ora la stessa accusa viene rivolta anche contro Dündar e Gul: i due giornalisti sono infatti accusati di terrorismo poiché, secondo il viceprocuratore di Istanbul, avrebbero collaborato con FETÖ. La prova – secondo il magistrato – consisterebbe nel fatto che il direttore Dündar conoscesse bene le due operazioni anti-corruzione. Nell’ordinanza sostiene che i due reporter hanno procurato documenti per realizzare articoli senza fondamento con l’obiettivo di trasmettere l’immagine di un governo coinvolto in progetti di terroristici.
Eppure sarebbe interessante avere risposte sui fatti: a chi erano dirette le armi riprese nel video trasmesso da Dündar e Gul? Perché un convoglio di questo tipo era scortato dai servizi segreti? Fino ad ora a nulla sono valsi gli appelli internazionali per liberare i due giornalisti. Mentre la Turchia tratta sui tavoli diplomatici per tenere i profughi siriani lontani dall’Europa in cambio di tre milioni di euro, la magistratura turca chiede l’ergastolo per i due giornalisti, realizzando in concreto la minaccia di Erdoğan e aprendo una delle pagine più buie per la libertà di stampa in un Paese che si affaccia sulla Vecchia Europa. Perché appare evidente che chi si oppone alla volontà del governo a guida AKP può essere soggetto alle accuse più svariate: dallo spionaggio fino fino al sostegno al terrorismo. Esiste, in questo paese, un sistema giudiziario indipendente? Anche a questa domanda dovrebbe rispondere l’Europa prima di dipendere totalmente dalla Turchia per la gestione dell’emergenza profughi.