di Stefania Battistini
Il reporter dietro la telecamera schizzata di sangue che non smette di riprendere – nonostante gli spari della polizia turca e due cadaveri già a terra – è l’emblema della situazione che da mesi si vive nel sud-est della Turchia, l’antica capitale del Kurdistan.
Racconta in un frammento d’immagine che cosa significa fare il giornalista in Turchia, in quelle città a maggioranza curda in cui da fine luglio Erdoğan ha imposto il coprifuoco, dopo aver interrotto i negoziati di pace col Pkk.
Mentre in Italia la Federazione della Stampa e l’Usigrai (insieme a diverse associazioni come Amnesty e Reporters sans frontières) erano in presidio sotto l’ambasciata turca per chiedere il rispetto dei diritti umani e della libertà di stampa, rispondendo all’appello dalla prigione di Can Dündar, direttore di Cumhuryet che rischia l’ergastolo per aver pubblicato un’inchiesta su un traffico di armi dalla Turchia alla Siria con la scorta dei servizi segreti, a Cizre il cameramen di IMC TV, Refik Tekin, rischiava la vita per documentare la violenza delle autorità turche contro i civili.
Un video, poi riportato sul sito dell’HDP (il partito filo curdo che nelle elezioni di giugno ha conquistato l’11% dei voti), mostra chiaramente una folla di civili con le bandiere bianche in mano raggiunti da una raffica di proiettili della polizia. Non importa vi siano donne, anziani e bambini, non importa che alzino al cielo il simbolo della resa o del cessate il fuoco: per il governo in queste terra a maggioranza curda si nascondono terroristi e qui salta qualsiasi regola che èpossa essere verificata da osservatori internazionali.
Refik Tekin non rinuncia a testimoniare, non spegne la camera che viene macchiata di sangue; anche lui viene trafitto dai proiettili, uno gli trapassa la gamba, mentre lì accanto rimango, immobili, due corpi.
Alla fine, si contano dieci persone ferite, due di queste decedute poco dopo: Abdulhamit Pocal, consigliere comunale e Selman Erdogan. Mentre Refik ora ha una gamba ingessata, ma è vivo. È lui stesso, da un letto di ospedale, a raccontare: “La polizia ha continuato a prenderci a calci anche mentre ci stavano caricando sull’ambulanza – dice – insultando noi e i medici accorsi sul posto. Hanno smesso solo quando ho detto che ero della stampa, ma hanno continuato a picchiare gli altri feriti. Qualcuno dev’essere morto, non so…”.
Questo non sapere, questo buco nero che inghiotte per giorni e giorni i quartieri sottoposti a coprifuoco, qui, è una regola: gli ospedali sono irraggiungibili, le scuole chiuse, le comunicazioni oscurate, e i cadaveri rimangono sulle strade anche per dieci giorni consecutivi. È quasi impossibile documentare quello che accade dentro i quartieri chiusi dai blindati dell’esercito, se non con qualche fugace scatto poi postato su Twitter e Facebook, le uniche fonti da cui si ricevono immagini dal sud-est della Turchia.
Chi, in questi mesi, ha provato a raccontare il dramma che stanno vivendo i civili o è stato minacciato come il giornalista di Ozgur Gun TV a Silvan, a cui la polizia ha puntato una pistola alla testa, o è stato arrestato con l’accusa di sostegno al terrorismo, come i giornalisti inglesi di Vice News Jake Hanrahan e Philip Pendlebury. Ed è quello sta accadendo anche a Refik Tekin.
È stata proprio l’agenzia Turkish AA ad affermare che risultava essere tra i 10 terroristi a cui la polizia dava la caccia a Cizre. “Questo è un paese in cui è molto facile accusare chiunque di terrorismo – risponde alle accuse il cameramen – lo hanno fatto con i professori universitari che chiedevano pace per queste terre, lo ripetono con i giornalisti che fanno il loro lavoro. È molto triste sentirsi fare un’accusa di questo genere da dei colleghi, da un’agenzia di stampa. Ma chiunque può essere etichettato come terrorista, ormai…”. In Turchia anche avere una telecamera è un attentato alla sicurezza dello Stato.