di Marilù Mastrogiovanni
Siamo colpevoli, siamo tutti colpevoli. Dobbiamo essere condannati tutti per la morte di Paola Clemente. E siamo tutti vittime, qui al Sud.
Perché da quando siamo nati siamo abituati a vedere nelle piazze dei paesini di tutta la Puglia i crocicchi di uomini che attendono il “fattore” che li recluti la sera per la mattina, per il lavoro dei campi. E non ci abbiamo fatto caso quando, al “fattore” s’è sostituito il caporale. Quando cioè alle normali dinamiche di intermediazione del lavoro agricolo s’è infiltrata la mafia.
Qui al Sud s’è fatto sempre così. Ognuno si lecca le ferite sue. Perché se alzi la testa, perdi il lavoro, che è nero, maledetto, senza dignità, ma almeno ti da un pezzo di pane.
Tutti abituati, non solo i contadini, a cedere al padrone la propria dignità di lavoratori perché sennò non porti a casa il pane. Sordi, alle denunce del sindacato che cercava di sollevare, spesso riuscendoci, la coscienza civile dei lavoratori e delle lavoratrici.
La Cgil in Puglia ha fatto un gran lavoro, con i camper che l’estate girano in lungo e in largo a dare supporto, servizi e assistenza.
Grazie alla presenza capillare del sindacato sono arrivate le prime denunce e questa prima condanna.
Parallelamente, la legge sul caporalato, per cui una Teresa Bellanova ha combattuto fin dal 2008, spesso controcorrente, perché il reato fosse incardinato nell’ordinamento, altrimenti non esistendo il reato, gli schiavisti non sarebbero stati perseguibili.
Infatti, non potendo essere retroattiva, la legge oggi non s’è potuta applicare su questo procedimento per la morte di Paola Clemente.
Ma in fondo, nella coscienza collettiva di questa terra sonnecchiante, a che cosa è servito il coraggio delle colleghe di Paola, che hanno denunciato e consegnato alla giustizia quelli che vengono percepiti, ancora oggi, come semplici intermediari?
“I miei figli non trovano lavoro”, è l’amara denuncia del marito di Paola. Perché uno con la schiena dritta e la consapevolezza che la dignità dell’essere umano deriva dal valore e dalla dignità che si dà e che lui stesso dà al suo lavoro, uno così, qui, non lo vuole nessuno.
L’ommu alla chiazza, a fimmina a ccasa. Gli uomini hanno sempre atteso il passaggio del caporale in piazza, le donne da casa: il caporale è sempre passato da casa a prenderle. E le ha sempre pagate meno degli uomini. Ma da sempre la raccolta delle olive e la vendemmia sono soprattutto opera loro, delle donne. E prima ancora, raccoglievano il tabacco.
Fimmine fimmine ca sciati allu tabbaccu. Nne sciati ddoi e nne turnati quattru. Donne donne che raccogliete il tabacco, andate in due e ritornate in quattro. Cioè tornate piegate, carponi, sfiancate, squadernate dalla fatica, e dalle violenze. Che chi interpreta quel “quattro” un riferimento alle violenze sessuali, subite dai caporali.
Tutto vero, tutto accaduto.
E’ delle tabacchine salentine la prima rivendicazione dei diritti di lavoratrici, era il 1947. Una migliore paga e alcuni diritti vennero loro riconosciuti con delle moderne concessioni sebbene date informalmente, come le stanze destinate all’allattamento, durante l’orario di lavoro.
Ma la società liquida ha reso rarefatta anche la coscienza di classe e s’è diluita la percezione della differenza tra le normali dinamiche dei rapporti di forza tra lavoratori e datori di lavoro e schiavitù, sfruttamento, eliminazione della dignità del lavoro. Così com’è s’è assottigliato il confine tra lecito e illecito, tra potere politico e potere mafioso, tra “fattori” e caporali, tra aziende e “famiglie” mafiose, tra lavoro e schiavitù.
Qui, dove il potere, non solo mafioso, toglie la dignità al lavoro, i nuovi schiavi sono professionisti sottopagati, laureati, giornalisti iscritti all’albo, come Pierpaolo Faggiano, 41 anni, una vita da giornalista precario che gli sfugge dalle mani e la decisione di suicidarsi, per il logoramento di un lavoro senza dignità.
Qui gli schiavi sono precari col voucher, operai dai polmoni intossicati e i figli col tumore. Qui, esiste anche il caporalato industriale, ancora inesplorato, ancora non inquadrato come reato, ancora considerato “intermediazione”, e i nuovi schiavi sono i piccoli imprenditori faconisti monocliente.
Prendere o lasciare: nessun potere contrattuale con la mafia. Così Paola Clemente s’è fatta in quattro per la famiglia ed è morta. Perché la mafia ti toglie tutto, e qui la vita è un prezzo come un altro, da pagare per mangiare.