Un anno fa ci ha lasciati Santo Della Volpe

Sembra ieri. Il 9 luglio dell’anno scorso ci ha lasciato Santo Della Volpe. Sembra ieri che, pur consumato dalla malattia, ancora si appassionava alle vicende della politica, della Rai, del sindacato.

Ma sembra anche un secolo fa, per tutto quello che è passato davanti ai nostri occhi in dodici mesi, e a volte ci siamo chiesti lui cosa avrebbe detto, cosa avrebbe pensato. Perché Santo era uno di quegli uomini per cui osservare, capire, raccontare non era solo un mestiere ma una esigenza profonda.

Amava istintivamente lo studio della realtà e la lotta per trasformarla, quanto amava pescare, bere buon vino e viaggiare con Teresa. Amava raccontare, e amava ascoltare. Era in grado di cambiare registro in un attimo, da pensoso si faceva ilare.

Ed era capace di ascoltare tutti, anche quelli con cui non era d’accordo e non lo sarebbe stato mai. Nella sua stanza, sul muro ormai vuoto è rimasto un vecchio adesivo dell’Arci, con scritto “giustizia uguale diritti uguali per tutti”.

La sua scrivania è ancora carica di pile di libri e di carte, ma ormai ripulita e riordinata, come non lo è mai stata in tanti anni che ho condiviso quella piccola stanza con lui e l’ho visto da lì impegnato , anche in solitudine, nelle sue battaglie.

La lotta alla mafia, l’impegno per Libera informazione, la battaglia contro la criminalità organizzata e per la legalità che lo ha accompagnato da quando l’incontro con don Luigi Ciotti cambiò la sua vita, lui figlio di un carabiniere venuto dalla Campania, un sud portato dentro nella Torino operaia degli anni Settanta. E poi la lotta per la pace, dai viaggi nell’Iraq sotto embargo alle marce per la pace. E una infinità di altre battaglie, dai giornalisti minacciati al movimento dei cento autori, la libertà di informazione con articolo 21, i morti sul lavoro, le vittime dell’amianto, di cui non si occupava più nessuno, perché da giornalista due cose vanno riconosciute a Santo.

L’aver seguito e mai dimenticato le storie che in quarant’anni di lavoro non ha gettato dietro le spalle ma accumulato, assimilato, continuato a coltivare anche quando come piante secche parevano non dare frutti. E l’attenzione al senso, ai dettagli che fanno capire cosa c’è dietro e intorno alle storie, che cosa ci dicono del mondo in cui viviamo e di cosa possiamo fare per cambiarlo.

Perché Santo era, in un senso oggi poco comune, un giornalista militante, di una militanza ideale e politica mai faziosa ma nemmeno ipocrita. Militante di un’idea di progresso e di emancipazione che affondava nei sogni giovanili, nel grande amore per l’America di Kennedy e Martin Luther King, dei diritti civili e del rock, di Springsteen al cui concerto conobbe Teresa tanti anni fa, e dietro le spalle su quel muro della sua stanza c’era anche la foto iconica di Bruce con Obama, quando il sogno di quell’America sembrava aver vinto, ed è strano pensarci proprio in queste ore di sangue.

Santo, che rideva quando alla sua ultima festa di compleanno gli gridarono “Santo subito”, non avrebbe mai voluto essere santificato. E’ stato un uomo con le sue ambizioni, le sue idee e le sue passioni, alcuni lo hanno amato, altri detestato come è naturale che sia per chi vive appieno la vita e il lavoro, non lasciandosi scorrere addosso il tempo, ma fino in fondo e con tutta l’anima.

Santo non ha mai voluto sentirsi un emarginato, anche se, lo sappiamo bene, negli ultimi anni avrebbe voluto dare al suo Tg3 molto di più del poco, troppo poco che gli veniva chiesto. Il suo Tg3, perché alla sua testata ha dedicato gran parte della sua vita, come al sindacato, all’Usigrai e poi alla Federazione della stampa.

E soprattutto alla Rai. Il servizio pubblico per lui non era un valore astratto, era camminare tra la gente della Perugia Assisi, di cui è stato la voce narrante, o tra i manovali immigrati di Rosarno, non come un osservatore, ma come membro di una comunità, in cui ad altri spettava fare il pane o costruire case, mentre il suo lavoro era raccontarne le storie, le tragedie e le speranze.

E sempre la sua preoccupazione, il suo chiodo fisso è stata l’unità. Dei colleghi, del sindacato, delle forze democratiche, unirsi per essere più forti perché come in quella frase di Joe Strummer che è divenuta il suo epitaffio, il futuro non è scritto.

O come gli aveva detto, e lui lo citava spesso, il suo vicino in campagna, operaio in pensione della Volkswagen: quando sembra finita, c’è sempre la lotta. Santo ha lottato fino all’ultimo anche contro la malattia, riempiendo i suoi ultimi giorni di lavoro, di lotta contro la legge sulla diffamazione e per un gruppo di giornalisti somali che era riuscito a portare in Italia.

Sul muro, sopra l’adesivo dell’Arci c’era ma oggi non c’è più un quadretto con una frase di Steinbeck. Ora è a casa sua, ma la cito a memoria. A volte siamo caduti, ma ci siamo rialzati, a volte abbiamo preso la strada sbagliata, ma non siamo mai tornati indietro. Io lo prendevo in giro, gli dicevo ma se la strada era sbagliata era meglio tornare indietro, no? Solo ripensandoci dopo ho capito quanto ero io a sbagliare.

Riccardo