di Amedeo Ricucci
Sei mesi di false promesse. E, peggio ancora, sei mesi di depistaggi sfacciati. Era il 25 gennaio 2016 quando il giovane ricercatore italiano Giulio Regeni scompariva al Cairo, in Egitto, per ricomparire torturato a morte otto giorni dopo, il 3 febbraio: il corpo irriconoscibile, scaricato come un sacco dell’immondizia in una scarpata ai bordi dell’autostrada per Alessandria.
Un incidente stradale, provarono subito a dire le autorità egiziane, coprendosi però di ridicolo visti i segni delle torture impressi sul corpo di Giulio. E il balletto delle bugie è continuato spudoratamente nei giorni, nelle settimane e nei mesi seguenti: si è detto che Giulio si drogava ed era rimasto vittima di qualche gioco a sfondo sessuale, dopo un festino fra amici; si è detto che Giulio era una spia, al servizio di qualche potenza straniera e invischiato perciò in traffici loschi; infine si è detto che Giulio era stato rapito e poi ucciso da una banda di delinquenti comuni specializzata nel sequestro di cittadini stranieri. Ipotesi cadute tutte, una dopo l’altra, perché inverosimili e per di più mal congegnate. Ma, soprattutto, ipotesi che andavano a cozzare contro la realtà dei fatti, contro cioè un corpo martoriato, vittima di una tortura prolungata e scientifica, che di per sé costituisce una firma inequivocabile ed è già più che un indizio, è un atto di accusa, che chiama in causa il regime egiziano anche se non fornisce nomi e cognomi dei colpevoli materiali di quest’orrendo delitto.
“Giulio era uno di noi”, hanno detto subito, non a caso, gli egiziani che si sono radunati davanti all’ambasciata italiana nei giorni successivi al ritrovamento del suo corpo e che poi, sui social network e nelle piazze del Cairo, hanno esposto la sua foto e si sono mobilitati per evitare che calasse il sipario su questa tristissima vicenda. “Giulio era uno di noi” perché la sorte toccata a Giulio Regeni è la stessa riservata a centinaia, anzi miglia di egiziani che si battono per la libertà, per i diritti umani e per la democrazia. Giulio non era un attivista politica bensì un ricercatore universitario, al servizio perciò della verità, e la sua ricerca riguardava proprio le nuove forme di associazionismo della società civile nell’Egitto di Abdel Fattah al Sisi: quell’Egitto che a detta di tutti i più importanti organismi internazionali – da Amnesty International all’Unione europea – è diventato uno Stato di Polizia, in cui gli arresti, le sparizioni forzate, la tortura e gli omicidi sono una pratica sempre più diffusa.
Ma le autorità egiziane fanno finta di nulla. A parole promettono infatti piena collaborazione per far luce sulla morte di Giulio ma poi si rifiutano di consegnare quei dati – in particolare i tabulati telefonico e il traffico delle celle nei giorni della scomparsa e del ritrovamento del corpo – che con buone probabilità potrebbero portare all’identificazione dei suoi rapitori. Dicono che è una questione di “privacy” ma è evidente che si tratta di una scusa. La verità – come continuano a ripetere al Cairo tutti gli attivisti per i diritti umani – è che il regime egiziano non può permettersi di far luce sulla morte di Giulio perché così si aprirebbe quel vaso di Pandora che racchiude le centinaia di desaparecidos degli ultimi due anni; né può permettersi di punire i veri responsabili – che a detta di tutti gli osservatori più attenti della realtà egiziana vanno cercati nei servizi di sicurezza, militari o civili – perché così facendo sconfesserebbe sé stesso, in quanto regime militare e Stato di Polizia: nessun regime militare mette sotto accusa i suoi scherani.
L’unica speranza per poter far luce sulla morte orribile di Giulio Regeni restano perciò le pressioni internazionali. Quelle del governo italiano, innanzitutto, che ha più volte dichiarato di non volersi accontentare di una verità “di comodo” e che conseguentemente non deve mollare la presa. E quella dell’opinione pubblica – italiana, egiziana e internazionale – che deve prendere esempio dalla famiglia Regeni e continuare. Giorno dopo giorno, a chiedere Verità e Giustizia. Per non dimenticare.