Perugia 3 maggio 2013 – Quest’anno celebriamo la Giornata indetta dall’UNESCO in memoria dei giornalisti uccisi con la trepidazione per la sorte dell’inviato di guerra della “Stampa” Domenico Quirico, al quale auguriamo di tornare presto fra noi sano e salvo con tante cose da raccontare.
Questa vicenda, insieme a quella dei quattro giornalisti trattenuti in Siria per una settimana, ci ricorda quanto sia rischiosa l’attività dei giornalisti nelle zone di guerra e nei paesi che vivono drammatiche crisi. E’ evidente che gli inviati di guerra corrono gravi rischi. Ma è più impressionante sapere che corrono gravi rischi anche molti cronisti impegnati in prima linea nel nostro paese sul fronte interno delle mafie, del terrorismo, degli affari illeciti. Questi cronisti subiscono agguati, minacce, ritorsioni. Undici di loro sono stati uccisi. Ricordarli come facciamo oggi non è un omaggio al passato, non è un esercizio retorico, ma il modo più concreto ed esemplificativo di parlare del problema numero uno dell’informazione giornalistica professionale: il diffondersi di forme di censura subdole, attuate con pressioni indebite, minacce ed altre forme di violenza e con gravi abusi del diritto attraverso i quali si rende rischiosa l’attività di testimone ed interprete dei fatti propria di ogni cronista, si alimenta l’auto-censura e si rende “parziale” la libertà di stampa.
E’ un grande problema, non solo dell’Italia. Ma in Italia da molti anni si manifesta in termini più drammatici che altrove. Certamente in modo ben più grave che nel resto dell’Eurozona, che nei paesi europei a Nord delle Alpi, visto che nessun altro paese di quest’area ha avuto tanti giornalisti uccisi e tanti giornalisti minacciati, e un così brutto voto in pagella in materia di libertà di stampa.
Occorre leggere con attenzione anche le statistiche internazionali. Nel mondo, dal 2000 al 2012 sono stati uccisi 1078 giornalisti impegnati nel loro lavoro. Negli ultimi 4 mesi, dal 1 gennaio al 1 maggio 2013, sono stati uccisi altri 32 giornalisti. La triste contabilità dice che la strage non accenna a finire, anzi le vittime sono aumentate di anno in anno, anche dopo le Guerre del Golfo, l’invasione dell’Iraq e la riduzione della belligeranza in Afghanistan: le vittime sono state 133 nel 2012, 102 nel 2011, 101 nel 2010, 66 nel 2008, 94 nel 2007 (fonte IPI, Vienna). Il numero aumenta, spiegano le statistiche e le cronologie, ed è questo il punto più interessante da cogliere, perché sono sempre più numerosi, i giornalisti uccisi lontano dai fronti di guerra, in paesi che, come l’Italia, non sono in guerra, non sono coinvolti nelle grandi emergenze affrontate con l’invio di contingenti militari. Sono i tre quarti del totale, e ciò testimonia tutta l’insofferenza dei poteri sporchi e dei criminali per la funzione dei giornalisti.
Anche l’Italia ha avuto la sua ecatombe di giornalisti: almeno 26 giornalisti italiani sono stati uccisi negli ultimi 53 anni da mafie e terrorismo: 11 in Italia e 15 all’estero. La prima vittima che ricordiamo è Cosimo Cristina, ucciso a Termini Imerese nel 1960 mentre, rompendo un coro di silenzio, denunciava come una nuova mafia sanguinaria si stava insediando nella sua città. L’ultima vittima che abbiamo commemorato è stata Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza il 15 aprile 2011 mentre raccontava sul suo blog le difficili condizioni di vita e le tensioni nella Striscia sigillata dall’embargo di Israele. Vittorio era un blogger, un giornalista di complemento, che mandava in Italia informazioni da un territorio in cui non c’erano al lavoro altri giornalisti italiani. La sua voce rompeva il silenzio e ciò era intollerabile per i suoi assassini.
Entrambi, Cosimo e Vittorio, sono stati uccisi perché con il loro lavoro solitario cercavano di illuminare con la luce del giornalismo territori in cui si commettevano abusi e violenze, in cui si cancellavano diritti, in cui si potevano commettere grandi crimini solo a condizione che ci fosse il buio informativo.
Gli altri 24 giornalisti italiani sono stati uccisi per lo stesso motivo. Le storie sono diversissime fra loro, ma tutti hanno agito in un clima di isolamento e la loro ultima missione è stata la stessa: tentare di accendere i potenti fari del giornalismo in territori bui, tentare di illuminare vicende oscure , a dispetto di criminali e potentati di varia natura che non avrebbero potuto proseguire attività illecite con quel faro acceso.
Per rendere a questi caduti sul fronte del giornalismo l’onore che meritano dobbiamo ricordare i loro nomi e impedire che il tempo li cancelli. Ma non basta, bisogna ricordare anche cosa hanno detto e cosa hanno cercato di far sapere ai loro lettori, sfidando pericoli concreti di cui erano ben consci. Bisogna dire che molti di loro erano precari malpagati e sono stati riconosciuti come giornalisti solo dopo la morte. Bisogna dire che molti di loro si sono spinti avanti senza avere al fianco i loro colleghi; bisogna dire queste cose ed indicare il filo comune che lega le loro storie e fa di loro dei martiri, delle figure esemplari di riferimento per il giornalismo.
Inoltre, come ha sottolineato l’UNESCO, non ci si può limitare a commemorare i giornalisti uccisi senza capire che essi rappresentano solo la punta di un grande iceberg, che per ogni giornalista ucciso c’è un gran numero di giornalisti che subiscono minacce, intimidazioni, violenze, gravi abusi legali, censure violente e che nella massima parte dei casi non operano sui fronti di guerra, ma in paesi pacifici come l’Italia, in territori che si ritengono liberi, e colpiscono i cronisti che documentano i fatti più oscuri del potere e della criminalità.
Questi giornalisti sono gli invisibili della nostra professione. Costituiscono un universo poco conosciuto,benché sia densamente popolato. Questa amara realtà riguarda molto da vicino noi italiani, ma noi italiani non ne abbiamo ancora piena consapevolezza nonostante il lavoro di documentazione e di pubblicizzazione svolto in questi anni dall’osservatorio Ossigeno per l’Informazione.
I dati sono incontestabili e parlano chiaro: in Italia, negli ultimi sei anni, i giornalisti coinvolti direttamente o indirettamente in minacce, intimidazioni, abusi, sono stati oltre 1400. Ossigeno per l’Informazione ha parlato di loro in tre Rapporti annuali, nei notiziari settimanali e riporta i loro nomi e cognomi e le testate per cui lavorano. 1400 è un numero enorme, ma purtroppo questo numero misura solo la punta dell’iceberg. Il fenomeno sommerso è molto più grande.
L’Osservatorio conosce molte più minacce di quelle che riesce a documentare. Un’altra parte non riesce a conoscerle perché le vittime hanno paura di denunciarle. Abbiamo stimato che per ogni minaccia che Ossigeno riesce a documentare almeno altre dieci rimangono segrete, inconoscibili, non conteggiabili in base ai nostri rigorosi criteri di verifica.
Siamo dunque di fronte a un grande problema italiano. Un problema sociale che riguarda la sicurezza di migliaia di persone e la libertà di informazione di tutti, che indebolisce ancor più della crisi economica una infrastruttura essenziale della democrazia: il giornalismo professionale
Che libertà di stampa c’è in un paese in cui migliaia di giornalisti subiscono minacce e gravi abusi? In cui molti giornalisti lavorano ormai in una condizione di precarietà che riduce la loro autonomia? Proprio esponendo questa domanda, nei giorni scorsi Chiara Baldi, una giovane giornalista, ha vinto a Perugia il Premio Walter Tobagi.
Rilancio la sua domanda, aggiungendone un’altra: che libertà di stampa c’è in un paese in cui è difficile difendersi da queste minacce e da questi abusi e ottenere la condanna dei violenti e dei prevaricatori? Pensate ai cronisti a cui bruciano la macchina, ripuliscono la casa, rubano gli strumenti di lavoro, non rinnovano il contratto e alla facilità con cui si possono crocifiggere i cronisti scomodi e i loro giornali con querele pretestuose e richieste di danni infondate! Un paese in cui avvengono queste cose la libertà di stampa è parziale. Lo ha autorevolmente certificato l’osservatorio internazionale Freedom House ormai da parecchi anni.
Noi giornalisti, noi cittadini che invochiamo il diritto di sapere ciò che accade nel nostro paese, dovremmo preoccuparci di più di queste cose, parlare dei giornalisti uccisi, dei giornalisti minacciati, della censura violenta non solo una volta l’anno in queste cerimonie. Dobbiamo imparare a tenere presente questo oscuro orizzonte ogni volta che discutiamo i problemi dell’informazione, i guai del giornalismo, l’ansia di libertà e di diritti che anima grandi iniziative, i malanni della nostra democrazia. Non basta parlare episodicamente di queste cose, durante queste ricorrenze o quando drammaticamente un episodio eclatante ripropone la questione. Occorre parlarne tutti i giorni perché lo stillicidio delle minacce è quotidiano. Non basta dare solidarietà solo ai propri amici, solo ai colleghi del proprio giornale, solo ai giornalisti che ci piacciono. Occorre identificarsi con le vittime, superare la faziosità, i luoghi comuni, i tabù, il senso di fastidio e di vergogna, il fatalismo e la rassegnazione.
È necessario per fermare l’assuefazione alle intimidazioni che si sta facendo strada, e non solo nel Sud afflitto storicamente dalle mafie. Se riusciremo a dedicare una attenzione maggiore e più continuativa a questo tema, se riusciremo ad avviare una riflessione serena fra coloro che rifiutano di adottare come prevenzione l’autocensura, potremo scoprire le vere cause di una prevaricazione così diffusa a danno dei cronisti, e potremo indicare e rivendicare rimedi efficaci. Certo, la professione giornalistica comporta rischi non prevedibili né eliminabili, ma altri rischi – questi di cui parliamo – si possono prevenire e limitare.
Le storie che conosciamo rivelano una dinamica ricorrente. Con le intimidazioni, con le discriminazioni, con l’isolamento e con la violenza i criminali e i prepotenti cercano di imporre la regola secondo cui per pubblicare una notizia che li riguarda, un giornalista deve avere il loro permesso. Accettare questa regola significa accettare la censura. Un giornalista deve ribellarsi a queste imposizioni. Può farlo, può tenere il punto. Esempi clamorosi e significativi dicono che si può respingere questa imposizione a condizione di non restare isolati, di avere alle spalle il proprio editore e al fianco gli altri giornalisti ed i cittadini e le associazioni che credono nella libertà di stampa e sono disposti a difendere attivamente il diritto di essere informati.
Non è facile, specie in certe realtà sociali, ma se non si riesce a fare questo bisogna rassegnarsi ad avere un’informazione parziale, censurata, purgata. Le forze sane devono respingere la pretesa dei criminali e dei prepotenti di restringere arbitrariamente il campo in cui il cronista può esercitare pacificamente il diritto di raccogliere e diffondere notizie. I prepotenti difendono con la forza questa arbitraria linea di confine. I cittadini onesti devono dimostrare che non lasciano solo e indifeso chi osa superare quel confine per informarli.
Per la raccolta delle notizie, deve valere solo il confine tracciato dall’Art.21 della Costituzione e dalle dichiarazioni universali dei diritti che valgono nelle società democratiche. Esse sanciscono, insieme al diritto di cronaca, la libertà di pensiero e il diritto dei cittadini di essere informati correttamente, in modo libero, completo, senza ingerenze delle autorità e senza condizionamenti di chi, per interesse proprio, per convenienza, vorrebbe che i cittadini non conoscessero alcune notizie che pure sono di pubblico interesse.
Alberto Spampinato, Direttore Ossigeno per l’informazione