Sono 9 i giornalisti uccisi dalle mafie in Italia dagli anni ’60 ad oggi e non è retorica ricordarli in questa 6° giornata della memoria organizzata dall’UNCI. Nove persone ammazzate perché avevano fatto il loro lavoro di inchiesta e di scrupolosi cronisti, mettendo in luce affari poco puliti e delitti mafiosi di grande rilevanza al punto da essere uccisi per metterli a tacere insieme ai giornalisti che li avevano scoperti. In alcuni casi, quelle inchieste sono morte e quelle notizie sono scomparse insieme a chi le aveva scoperte. Nove nomi, tutti da ricordare.
Cosimo Cristina, ucciso il 5 maggio 1960, un delitto oscuro, fatto passare per suicidio. Ma, come scoprì il vicequestore Angelo Mangano anni dopo, Cristina aveva pubblicato pochi giorni prima dell’assassinio, un articolo nel quale aveva ricostruito un delitto di mafia avvenuto a Termini Imprese, che evidentemente doveva restare segreto. Ma per il suo omicidio, nessuno sinora è stato imputato.
Mauro De Mauro, scomparso sotto la sua casa il 16 settembre 1970, a Palermo. Cronista de “L’Ora”aveva indagato sui collegamenti tra mafia e gruppi eversivi. Al momento della scomparsa stava lavorando sul delitto Mattei. Il suo corpo non è stato mai trovato, né rintracciate le informazioni che aveva avuto sulla vicenda del presidente dell’Eni, schiantatosi con il suo aereo nel 1962. Solo ora il processo per il suo omicidio è ripreso, dopo nuove rivelazioni.
Giovanni Spampinato, cronista del “L’Ora” e de”L’Unità” ucciso a 22 anni il 27 ottobre 1972 mentre stava pubblicando una inchiesta sull’intreccio tra mafia, trame neofasciste e malavita a Ragusa.
Peppino Impastato, ucciso il 9 maggio 1978 per le sue attività di denuncia della mafia di Cinisi dove abitava e comandava il boss Tano Badalamenti. Per anni il suo omicidio è stato “depistato”, tentando di farlo passare per un attentato terroristico attuato con esplosivo. La verità è emersa solo dopo anni di indagini della Procura di Palermo.
Mario Francese, cronista giudiziario de “Il Giornale di Sicilia”, ucciso la sera del 26 gennaio 1979. Fu il primo giornalista a scrivere denunciando la pericolosità dei corleonesi di Totò Riina. Per questo fu ucciso dalla cupola di cosa nostra,ma si scoprì solo 22 anni dopo; la condanna dei capi mafiosi è arrivata solo nel 2001.
Giuseppe Fava, fondatore del giornale “I Siciliani”, ucciso il 5 gennaio 1984, nel centro di Catania, nei pressi del Teatro Bellini. Aveva attaccato frontalmente i grandi gestori degli appalti di Catania, in “odor” di mafia.
Giancarlo Siani, freddato il 25 settembre 1985 a 26 anni. Ucciso dai sicari della camorra di Torre Annunziata in Campania, dove lavorava per “Il Mattino”, con un rapporto di collaborazione e corrispondenza. Assunto dopo la morte, “giornalista-giornalista”, secondo la definizione diventata famosa nel film a lui dedicato, aveva scoperto traffici ed affari della camorra dei clan Gionta e Nuovoletta.
Mauro Rostagno, ucciso a Lenzi, una frazione di Valderice (Trapani), il 26 settembre 1988 da sicari mafiosi. Secondo la procura che li ha mandati a processo (le udienze sono tuttora in corso), su ordine dei boss Vincenzo Virga e Mariano Agate, infastiditi, sempre secondo le ipotesi dell’accusa, dalle denuncia di Rostagno sui traffici di droga, appalti e, forse, armi.
Beppe Alfano, corrispondente del quotidiano “La Sicilia” da Barcellona Pozzo di Gotto, grosso centro in provincia di Messina, ucciso l’8 gennaio 1993 per le sue denunce degli affari illeciti sull’asse Messina Palermo.
Tutti uccisi non solo perché alzavano la voce contro le organizzazioni mafiose, ma perché facevano inchieste giornalistiche, cioè il proprio lavoro, scoprendo fatti misteriosi e toccando le corde vere del potere mafioso: il controllo del territorio, gli affari ed appalti, la corruzione, gli intrecci con poteri occulti della Stato e trame neofasciste a questi ultimi connessi. Non sempre la mafia uccide chi fa indagini o inchieste giornalistiche: molte volte usa altri strumenti, più subdoli, talvolta ugualmente e tristemente efficaci per cercare di mettere a tacere le voci scomode. Le intimidazioni con minacce dirette ed indirette, le querele milionarie chieste spesso a giornalisti ed editori che non potrebbero mai permettersi risarcimenti di centinaia di migliaia di Euro. Il ricatto, il più delle volte da “poteri forti” collusi con le mafie dal punto di vista economico, per evitare la scoperta di fatti ed accordi che potrebbero saltare se emergessero alla luce del sole. Sempre secondo un solo principio: la “convenienza”.
Le mafie uccidono se si toccano i loro nervi scoperti dell’arricchimento illecito, ponderando sempre se il morto gli conviene, se il giornalista è isolato abbastanza da non suscitare reazioni dalla comunità, dallo Stato, dalle istituzioni, se la scomparsa di un giornalista fa più rumore di un silenzioso tentativo di patto o intimidazione, magari minacciando interventi sull’editore o sulla famiglia del giornalista stesso oppure mettendo in moto contro il cronista la macchina del fango. La convenienza è il limite del loro intervento, della modulazione delle minacce,della via migliore per raggiungere i loro scopi con il minor danno da subìre per le conseguenze delle loro intimidazioni ed azioni.
Ma la convenienza è anche il segno di quanta alta deve essere l’asticella sociale, il riflettore acceso sul lavoro di inchiesta del giornalista,per non farlo sentire solo ma, al contrario, per aumentare la consapevolezza sull’importanza, direi necessità, dell’informazione pulita, coraggiosa, senza reticenze, per scoprire corruzione e malaffare,per denunciare all’opinione pubblica gli affari che arricchiscono i mafiosi dei colletti bianchi ai danni della società. Significa fermezza e schiena dritta nelle redazioni , significa lavoro di squadra e corresponsabilità dei direttori e capi-redattori nell’aiutare le inchieste e collaborare per proteggere i giornalisti dalle querele temerarie e dalle macchine del fango. Significa rendere sempre meno “conveniente” per i mafiosi , i camorristi, gli ‘ndranghetisti ed i poteri che li sorreggono, affrontare lo scontro con l’informazione. Significa azione collettiva, anche sindacale, per dimostrare la forza dell’onestà e dell’informazione pulita , facendo arretrare i mafiosi ed il loro potere, senza scendere mai a patti con i loro emissari o soci in affari, nella società e nelle società.
Ma significa anche, per noi tutti giornalisti, l’affermazione della nostra libertà di pensiero e di inchiesta, aumentando la preparazione,la conoscenza meticolosa dei fatti, il rispetto delle persone e dei “soggetti deboli” (soprattutto dei bambini e delle persone in difficoltà oggettiva) per avere dalla società civile tutto l’appoggio,il sostegno e la “difesa” di cui abbiamo bisogno per proseguire il nostro lavoro senza sentirci isolati. E poter chiedere a testa alta alle Istituzioni tutte, di non sottrarsi al confronto per migliorare le leggi (ad esempio quella sulla diffamazione e contro le querele temerarie) per garantire, senza pericolo per la propria vita e per la propria libertà d’espressione, la funzione di controllo del giornalismo.
Santo Della Volpe, direttore di liberainformazione